Francesco e la Chiesa ridotta a un fondale scenico
Propongo l’analisi sull’immagine mediatica del pontificato di Bergoglio pubblicata dal quotidiano Domani (qui) sabato 23 ottobre 2021.
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di Marco Grieco
Il film su papa Francesco che approda su Netflix riduce la Chiesa a uno sfondo
La barca di Pietro guidata da papa Francesco ora approda anche su Netflix. La piattaforma di intrattenimento on demand, che due anni fa aveva pubblicizzato l’uscita del controverso film I due papi sulla facciata di un palazzo vaticano in via della Conciliazione, il prossimo Natale darà spazio al papa – stavolta vero – con Stories of a Generation, la docuserie ispirata al libro La saggezza del tempo, curato dal direttore de La civiltà cattolica, Antonio Spadaro.
Lo ha reso noto proprio il gesuita via Twitter, annunciandone la proiezione esclusiva alla Festa del cinema di Roma. Un anno fa, alla stessa kermesse cinematografica, aveva fatto parlare di sé il film di Evgeny Afineevsky dove il papa sosteneva la parificazione civile per le coppie dello stesso sesso.
Polveroni mediatici a parte, il 2021 segna la consacrazione di papa Francesco sugli schermi televisivi, pubblici e privati. Il 4 gennaio, la Rai manda in onda il documentario La sorpresa di Francesco, un collage dei suoi backstage nel Giubileo della misericordia. Lo stesso tono informale pervade la lunga intervista che il 10 gennaio il papa rilascia al vaticanista di Mediaset, Fabio Marchese Ragona. Per l’occasione, l’emittente privata gli dedica uno speciale in prime time.
Francesco si destreggia, così, tra televisione e carta stampata non istituzionale bypassando il dicastero vaticano della comunicazione per rivolgersi a un pubblico poco avvezzo ai media vaticani. In quelle stesse settimane La gazzetta dello sport e Sportweek lanciano quella che viene chiamata «l’enciclica laica» sullo sport. Artefice è don Marco Pozza, sacerdote veneto scelto da Francesco per promuovere la sua comunicazione ufficiosa fuori dalle mura leonine. Il fatto che del settimanale sportivo non sia stata fatta menzione su Vatican News sottintende la prima crepa tra la comunicazione ufficiale e quella parallela del pontefice.
Per diffondere il suo verbo a cristiani e gentili, sempre a gennaio Bergoglio fa rimaneggiare la benedizione Urbi et Orbi di Natale per Vanity Fair Italia, testata a cui Simone Marchetti ha dato una precisa impronta d’inclusione Lgbt. E sempre in casa Condé Nast, è padre Spadaro a scrivere sul numero di gennaio di Vogue Italia un testo sull’ecologia integrale di Francesco.
La promozione degli ultimi prodotti editoriali sulle piattaforme streaming Discovery+ e Netflix rappresenta, quindi, l’ultimo atto di una strategia autonoma.
L’importante è comunicare
Online, l’impronta autorale prevede una struttura incentrata sulla figura del papa. Andata in onda lo scorso marzo fino alla domenica di Pasqua, la serie tv Vizi e virtù, realizzata da Officina della comunicazione per Discovery Italia, è concepita come una semplice catechesi con scampoli di morale, inframmezzata da riprese hd nella Cappella degli Scrovegni. Niente di innovativo, se l’attenzione non fosse tutta catalizzata sulla figura di Francesco.
Anche in questo caso, c’è lo zampino di don Pozza, che compare in tv a partire dal 2007 con Il testimone di Pif, per diventare presenza stabile del palinsesto prima di Tv2000 poi di Discovery Italia.
Il prete diviso tra il ministero nel carcere padovano di “Due palazzi” e casa Santa Marta alterna colletto bianco a sneaker con qualche malumore tra gli addetti vaticani. Bergoglio, dal canto suo, non aiuta. Ha atteso otto anni per visitare la sede dei media vaticani su via della Conciliazione e, quando lo ha fatto, ha usato parole forti: «Ho soltanto una preoccupazione […]: quanti ascoltano la radio e quanti leggono l’Osservatore romano? Perché se il nostro lavoro è per arrivare alla gente […], la domanda che voi dovete fare è: a quanti arriva?», si domanda con retorica Francesco, arrivando a paventare il rischio che il “monte” di Palazzo Pio stia partorendo un topolino.
Un dicastero difficile
La linea di Francesco sulla comunicazione rivela in nuce un paradosso. È il papa ad aver istituito, con una lettera apostolica in forma di motu proprio datata 27 giugno 2015, quella segreteria per la comunicazione che, da lì a due anni, sarebbe diventata in toto un dicastero. A capo ha chiamato l’ex giornalista Rai Paolo Ruffini per riordinare l’intero apparato amministrativo che, con circa 500 giornalisti, generava un salasso annuale di 43 milioni di euro.
A distanza di due anni dalle sue dimissioni come prefetto della segreteria per la comunicazione, oggi il vice cancelliere delle pontificie accademie delle scienze appare come il deus ex machina di diversi prodotti editoriali. A proposito del controverso film di Evgeny, così la produttrice milanese Eleonora Granata ha dichiarato a Cinecittà News: «Uno dei momenti più emozionanti che ricordo è quando abbiamo finalmente incontrato il cardinale [sic] Dario Viganò, un incontro andato benissimo che ci diede il vero accesso al Vaticano». Accesso che ha permesso di attingere all’intervista integrale del papa alla tv messicana Televisa, che i media vaticani avevano opportunamente tagliato nelle menzioni di Bergoglio alle unioni civili.
Trasparenza a metà
Seppure nuovo, guidato da un laico e composto da un team di giovani professionisti, il dicastero della comunicazione eredita l’atteggiamento catacombale su questioni delicate per la curia, come la tematica Lgbt. Occorre sviscerare la stampa estera per scoprire, in un’intervista sul New York Times, che un anno fa il dicastero aveva contattato il giornalista e biblista Francesco Lepore, ex sacerdote in Vaticano, per un’eventuale collaborazione, con la clausola di mantenere il silenzio sia sulla collaborazione che sui pagamenti: «Perché chiaramente non posso essere visto» ha dichiarato Lepore, dichiaratamente omosessuale, al corrispondente Jason Horowitz. Ne emerge così un’operazione trasparenza sul lato amministrativo, meno su altri aspetti.
Nel dicastero, Francesco tesse anche la rete di risorse umane: i documentari del papa sono presentati in anteprima alla Festa del cinema di Roma, diretta da Antonio Monda, fratello di Andrea, direttore de L’Osservatore romano. Entrambi sono in stretti rapporti con padre Antonio Spadaro, a sua volta direttore de La civiltà cattolica e ritenuto anzitempo lo spin doctor del pontefice.
A proposito dell’iconica statio orbis in una piazza san Pietro deserta il 27 marzo 2020, il vaticanista Piero Schiavazzi l’ha definita così sull’Huffington Post: «Un anticipo di risurrezione, politico e mediatico […]. Mai l’ignaziano Francisco avrebbe immaginato quando sembrava ormai avviata la curva discendente, di trovarsi di nuovo al vertice della hit, complice il repentino appannamento di tutte le altre leadership».
Non è il solo analista ad aver osservato come la regia a tratti hollywoodiana dell’evento abbia rinverdito l’immagine sbiadita del papa. Non è stato per nulla casuale aver posto sotto la pioggia battente un crocifisso del Cinquecento senza alcuna protezione, lasciando che la pioggia lo alterasse irrimediabilmente. Il giorno dopo, così riportava Il Messaggero, «il legno antico con l’umidità prolungata rischia quasi di “esplodere” e ci si chiede perché non sia stato messo sotto una tettoia per proteggerlo dalla pioggia. L’impressione è che dietro l’iniziativa ci fosse una logica di audience televisiva».
Lo confermeranno i numeri poco dopo: 5,5 milioni di visualizzazioni sul canale YouTube di Vatican News. Il piano toccato è volutamente emotivo, come conferma l’editoriale a firma di Andrea Tornielli, che accosta «il crocifisso bagnato dalle lacrime» al «papa solo nella piazza vuota»: «Il crocifisso, con la pioggia battente che gli irrigava il corpo, così da aggiungere al sangue dipinto sul legno quell’acqua che il Vangelo ci racconta essere sgorgata dalla ferita inferta dalla lancia.
Persino Maria, Salus populi Romani, incapsulata nella teca di plexiglass divenuta opaca a causa della pioggia, è sembrata cedere il passo, quasi scomparire, umilmente, di fronte a Lui, innalzato sulla croce per la salvezza dell’umanità» scrive il giornalista.
Sono superati i tempi in cui un papa metteva in guardia dalla libertà di stampa con l’enciclica Mirari Vos (Gregorio XVI, 1832). Si ha, però, l’impressione che oggi un papa, peraltro proveniente da un paese dove Evita Peron ha fatto della comunicazione politica un tratto autobiografico, rappresenti l’alfa e l’omega di una macchina mediatica che rischia di ridurre la Chiesa a un fondale scenico.
Fonte: messainlatino.it