Pietro e la professione di fede. Contro le adulterazioni
Tempo fa è stato monsignor Nicola Bux, in un’intervista a Edward Pentin («Monsignor Bux: We Are in a Full Crisis of Faith», in «National Catholic Register», 21 giugno 2017) a proporre che il papa, quando la crisi della fede si manifesta con particolare evidenza, proceda con una professione di fede, per ribadire i punti centrali del «depositum fidei» e confermare così i fratelli. E adesso sulla questione torna il cardinale Walter Brandmüller, uno dei quattro porporati dei «dubia».
Nel saggio «Der Papst: Glaubender – Lehrer der Glaübigen» («Il papa: credente e maestro dei fedeli»), pubblicato nel fascicolo di agosto di «Die Neue Ordnung», il porporato tedesco dimostra che per secoli i romani pontefici, appena eletti, hanno fatto professioni di fede, perché Gesù assegnò a Pietro la missione di diventare la roccia sulla quale costruire la Chiesa solo dopo che l’apostolo dichiarò apertamente: «Tu sei il Messia, il Cristo, il figlio del Dio vivente».
Prima di tutto un credente
Anche il papa, argomenta Brandmüller, è prima di tutto un credente e solo come tale può insegnare la fede ed essere garanzia del rispetto della retta dottrina. Pertanto «è interesse vitale della Chiesa poter essere sicuri della fede autentica di quell’uomo che è il successore del principe degli apostoli e, in quanto tale, possiede l’autorità».
A partire dal quinto secolo, le professioni di fede dei papi hanno assunto forme diverse, ma la sostanza è rimasta la stessa: ribadire la fede nel mistero della Trinità e dell’incarnazione, nonché riconfermare i dogmi e i decreti dei predecessori, minacciando con l’anatema chiunque si proponesse di contraddire il «depositum fidei» e la tradizione.
Brandmüller spiega che in uno di questi testi, l’«Indiculum Pontificis», forse risalente al settimo secolo, «il nuovo papa dichiara che la vera fede è stata fondata da Cristo, data a Pietro e poi trasmessa, come si è sempre fatto nella Chiesa, dal suo successore fino all’ultimo papa appena eletto, il quale desidera ora proteggerla a costo del proprio sangue».
Le professioni di fede, che spesso dovevano essere lette pubblicamente, ad alta voce, avevano anche lo scopo di rispondere alle eresie, diventando così strumenti dell’unità della Chiesa sottoposta a dure prove.
Non è certo un caso che sulla questione della professione di fede papale torni uno dei cardinali dei «dubia», che si sono rivolti al pontefice prendendo spunto da alcuni passi di «Amoris laetitia».
In gioco non è tanto il problema dell’ammissione dei divorziati risposati alla comunione, ma il problema generale del possibile scivolamento verso il soggettivismo nel momento in cui, in base alla cosiddetta etica della situazione, si introducono deroghe alle norme morali generali. Se si adotta l’etica della situazione, aperta diventa la contraddizione con «Veritatis splendor», là dove (n. 103) san Giovanni Paolo II scrive: «Sarebbe un errore gravissimo concludere… che la norma insegnata dalla Chiesa è in se stessa solo un “ideale” che deve poi essere adattato, proporzionato, graduato alle, si dice, concrete possibilità dell’uomo: secondo un “bilanciamento dei vari beni in questione”».
A proposito di professioni fede, abbiamo già raccontato (https://www.aldomariavalli.it/2017/07/17/quella-straordinaria-avventura-del-credo-di-paolo-vi/) di come Paolo VI, in un altro momento tormentato per la Chiesa, sentì il bisogno di proclamare il «Credo del popolo di Dio», per un «ritorno alle sorgenti» in una fase storica in cui gli «sperimentalismi dottrinali» stavano incrinando le certezze dei fedeli e degli stessi sacerdoti.
L’esempio di Celestino I
Fin dai primi secoli i papi si sono trovati ripetutamente a confrontarsi con eresie manifeste o striscianti, e uno dei casi più significativi è quello di Celestino I, che guidò la Chiesa dal 422 al 432, in piena crisi nestoriana sulla natura di Cristo.
Prima, durante e dopo il Concilio di Efeso (che condannò le tesi del vescovo siriano Nestorio), Celestino mantiene un fitto epistolario nel quale a un certo punto critica Nestorio per il suo «eccessivo discorrere» che porta confusione perché il vescovo, con la pretesa di «ragionare del Dio Verbo diversamente da come ritiene la fede comune», «ha preferito mettersi al servizio delle proprie idee piuttosto che di Cristo»,
La condanna della verbosità e della contraffazione dice qualcosa anche a noi: «Non si deve turbare la purezza della fede tradizionale con parole blasfeme su Dio. Chi mai non è stato giudicato degno si anatema se ha aggiunto o tolto qualcosa alla fede? Infatti la fede trasmessa dagli apostoli con pienezza e con chiarezza deve essere salvaguardata da aggiunte e da detrazioni. Leggiamo nei nostri libri che non si deve aggiungere né detrarre alcunché». E poi: «La custodia della dottrina tramandata non è meno importante del compito di chi la tramanda».
Nella sua semplicità, Celestino I aveva capito che uno dei grandi pericoli, per la fede, sta nell’opera di adulterazione di chi invece è chiamato a tramandarla: un aggiungere e un togliere che va a discapito della custodia e della vigilanza. «Se cominciamo a ricercare la novità, calpesteremo le norme trasmesse dai padri e faremo spazio a superstizioni senza valore. Dunque non dobbiamo spingere le menti dei fedeli verso tali esteriorità. Infatti vanno educati e non illusi».
Da sottolineare il riferimento all’importanza della «pienezza» e della «chiarezza»: sono passati milleseicento anni e, più o meno, ci confrontiamo con gli stessi problemi.
Vissuto in tempi burrascosi, con la Chiesa sottoposta alle pressioni di svariate eresie, Celestino I fu instancabile nel raccomandare la fedeltà agli antichi canoni. Ma non per questo fu un papa inerte. Fu in contatto anche con Agostino e alla fine della sua vita, come ultimo atto ufficiale da papa, prese una decisione davvero di portata storica per l’evangelizzazione dell’Europa: inviò san Patrizio in Irlanda.
Sulla sua tomba, presso le catacombe di Priscilla, nel luogo scelto da Pietro per i battesimi dei primi cristiani, c’è un epitaffio che è a sua volta una dichiarazione di fede: «Qui è il sepolcro del corpo. Ossa e ceneri riposano, né muore nulla. La carne tutta risorge nel Signore».
Se la fede è arrivata fino a noi lo dobbiamo anche a papi come Celestino I, in una sequela ininterrotta che permette alla Chiesa cattolica la cura pastorale perché è custode della Verità. Con una consapevolezza: poiché «il novanta per cento di ciò che chiamiamo nuove idee sono semplicemente vecchi errori», ecco che «uno dei principali compiti della Chiesa cattolica è far si che la gente non commetta questi vecchi errori in cui è facile ricadere, ripetutamente, se le persone vengono abbandonate, sole, al proprio destino» (Gilbert Keith Chesterton, «Perché sono cattolico e altri scritti»).
Aldo Maria Valli