Francesco in Myanmar. Il nodo Rohingya e le ombre cinesi
I generali hanno voluto subito mettere le cose in chiaro. Chiedendo di essere ricevuti a poche ore dall’arrivo del papa, prima di ogni altro incontro di Francesco in Myanmar, hanno dimostrato che qui comandano ancora loro, sebbene la transizione verso la democrazia sia formalmente incominciata.
Cinque i generali che sono andati da Francesco nella residenza dell’arcivescovo (a Yangon non c’è ancora una nunziatura perché le relazioni diplomatiche con la Santa Sede sono state allacciate da poco). Proprio la transizione politica verso un sistema più democratico, ha riferito il portavoce vaticano Greg Burke, è stato l’argomento al centro del dialogo, durato circa quindici minuti, con un sacerdote cattolico in veste di traduttore. Ma, al di là dei contenuti, l’incontro ha avuto un valore simbolico. I generali in un certo senso hanno “marcato” il territorio, ed è significativo che nelle stesse ore il cardinale birmano Chrales Bo abbia suggerito al papa di non pronunciare mai, nel corso dei tre giorni in Myanmar, la parola Rohingya, il nome dell’etnia musulmana alla quale il Myanmar non riconosce alcun diritto di cittadinanza e nemmeno considera una delle centotrentacinque etnie presenti nel paese. Sono soltanto profughi, dicono i governanti, che vietano di fare riferimento ai Rohingya anche perché li ritengono assimilabili a un gruppo terroristico.
Quantificabili in poco più di un milione, i Rohngya fuggono verso il Bangladesh, dove Francesco si recherà per la seconda e ultima tappa di questo suo viaggio in Asia, e fanno da spia di una situazione che, sotto il profilo dei diritti umani, qui resta precaria. È vero che Myanmar e Bangladesh nei giorni scorsi hanno siglato un accordo sul rimpatrio di oltre seicentomila persone, ma, più in generale, sul Myanmar pesa la tentazione del nazionalismo, con il contributo dei buddisti radicali.
Il paese è buddista al novanta per cento. I musulmani sono il quattro per cento, così come i cristiani. I cattolici poco più dell’uno per cento. “Love and peace” dice il logo ufficiale della visita di Francesco, ma per amore e pace il cammino sembra davvero complicato, anche per gli interessi economici in gioco.
Negli ultimi anni, sotto questo profilo, si è fatta sempre più intensa l’iniziativa cinese, con investimenti notevoli proprio nel Rakhine, la regione dei Rohingya nel Myanmar occidentale, ritenuta strategica nell’ambito del progetto di Pechino per la realizzazione di una nuova “via della seta”, marittima e terrestre, allo scopo di ottenere sbocchi commerciali e conquistare mercati sempre più vasti. Di qui un ruolo di “mediazione” da parte della Cina, che per mettere a frutto i suoi investimenti ha bisogno di un’area sgombra da tensioni etnico-religiose e dal rischio di scontri.
Proprio l’immediato cessate il fuoco nel Rakhine è quanto ha chiesto giorni fa il ministro degli esteri cinese durante una visita in Myanmar. Al secondo punto, tra le richieste di Pechino, negoziati concreti tra Myanmar e Bangladesh per risolvere il problema dei rifugiati. Terzo, sviluppo economico per l’area interessata, così da tagliare le radici alle violenze che affondano anche nel terreno della povertà e del disagio sociale.
I governi di Naypyitaw (la capitale del Myanmar) e Dhaka (quella del Bangladesh) hanno risposto positivamente e ora si vedrà. La fase è delicata e quindi anche le mosse di papa Francesco saranno osservate e valutate attentamente.
I Rohingya hanno un braccio armato (Arakan Rohingya Salvation Army) che per il governo birmano è un vero e proprio gruppo terroristico, responsabile di attacchi contro posti di polizia e dell’esercito. Il Myanmar ha dunque scatenato una repressione, con l’obiettivo di rendere inoffensivi i militanti. In realtà l’azione ha colpito anche i civili e interi villaggi sono stati distrutti. Una crisi umanitaria che da tempo è sotto osservazione da parte della Santa Sede e della quale il papa ha parlato apertamente durante l’Angelus del 27 agosto scorso, quando ha detto: “Sono arrivate tristi notizie sulla persecuzione della minoranza religiosa, i nostri fratelli Rohingya. Vorrei esprimere tutta la mia vicinanza a loro; e tutti noi chiediamo al Signore di salvarli e suscitare uomini e donne di buona volontà in loro aiuto, che diano loro i pieni diritti. Preghiamo per i fratelli Rohingya”.
Il problema Rohingya ha origini lontane, nel periodo coloniale, ed ha varie componenti, non esclusa quella religiosa, perché, in quanto musulmano, questo popolo è stato preso di mira dai gruppi armati buddisti. Così per molti la fuga è diventata una scelta obbligata. Scappano verso Bangladesh, Thailandia, India, Malesia e Indonesia. Solo che anche questi paesi spesso li rifiutano e quindi migliaia di Rohingya sopravvivono in campi profughi privi di tutto.
Ce la farà la Cina, grande potenza politica ed economica, a risolvere la situazione? Per ora Pechino appoggia le azioni del governo birmano contro quelli che definisce “gli estremisti terroristi”, e a dimostrazione di questo appoggio ha anche fermato possibili risoluzioni Onu contro il Myanmar circa le violazioni dei diritti umani
Per meglio comprendere le ragioni di Pechino occorre dare un’occhiata alla carta geografica. Lo Stato del Rakhine, sul Golfo del Bengala, è area strategica per il passaggio di fonti energetiche (petrolio, gas) e altri prodotti. Inoltre al largo del Rakhine sono stati trovati giacimenti di gas. La sorte dei diritti umani è dunque legata a quella di oleodotti e gasdotti? Non sarebbe la prima volta.
La Cina ha inoltre stretti legami commerciali con il vicino Bangladesh, paese che ha accolto migliaia di Rohingya. Di qui gli aiuti che Pechino sta fornendo a Dhaka per ospitare i profughi. Un “do ut des”.
Secondo molti analisti, tuttavia, i Rohingya, poveri e discriminati, non hanno molto da sperare dall’iniziativa cinese. Assai probabile è che i progetti di sviluppo andranno piuttosto a favore di investitori stranieri e dei birmani doc, buddisti e nazionalisti.
La partita che si sta giocando è dunque complessa e i giocatori sono numerosi. Tra questi c’è anche Francesco, portatore di “love and peace” in una terra che ne ha estremo bisogno ma, per tante ragioni, sembra attenta a ben altri messaggi.
Aldo Maria Valli