Non c’è pace senza giustizia…
Era il 1° gennaio 2002. Pochi mesi prima, l’11 settembre 2001, c’era stato il crollo delle Torri gemelle a New York. Papa Giovanni Paolo II diede al suo annuale messaggio per la Giornata della pace un titolo che ancora oggi ci parla: Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono.
Mentre oggi una guerra provoca morte e sofferenze in Europa e preoccupazione in tutto il mondo, rileggere quel documento offre numerosi spunti di riflessione. “Di fronte a questi stati d’animo – scriveva papa Wojtyła – la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l’ultima parola nelle vicende umane”. È così. Ma questa speranza va sostenuta e costruita ogni giorno. E l’impegno per la giustizia è il primo passo, fondamentale.
La giustizia va cercata e praticata sempre. Il che implica di denunciare sempre l’ingiustizia. La denuncia non può essere a corrente alternata, non può avvenire solo a partire da una spinta emotiva momentanea, magari fomentata da forme di propaganda. Aggressioni, vessazioni e discriminazioni vanno identificate e condannate sempre, a ogni livello, personale e comunitario.
Non c’è pace senza giustizia, e non c’è giustizia, possiamo dire, senza una chiara consapevolezza delle tante ingiustizie commesse. Non c’è giustizia, quindi, senza un’informazione onesta e trasparente.
Nei vent’anni trascorsi dal messaggio di san Giovanni Paolo II i mezzi di comunicazione hanno vissuto profondi cambiamenti e c’è stata l’esplosione dei social media. Dovremmo essere più informati e quindi più consapevoli, ma spesso siamo solo più confusi e manipolati. Battersi per la giustizia vuol dire non accontentarsi di poche fonti di informazione “ufficiali”, ma andare alla ricerca della verità, instancabilmente, esercitando lo spirito critico.
“La vera pace – scriveva Giovanni Paolo II – è frutto della giustizia, virtù morale e garanzia legale che vigila sul pieno rispetto di diritti e doveri e sull’equa distribuzione di benefici e oneri”. La vicenda Covid, con le numerose forme di discriminazione che ha innescato, dovrebbe indurci a riflettere.
Quanto al perdono, l’impressione è che qui si entri in un ambito che nulla a che fare con la vita sociale e politica e men che meno con la grande geopolitica e i rapporti internazionali. Giovanni Paolo II invece aiutava ad allargare la prospettiva. Certamente il perdono riguarda il cuore dell’uomo e il suo eventuale rapporto con Dio, ma ciò non esclude che abbia, e anzi debba avere, anche una dimensione sociale e perfino politica. “In quanto atto umano, il perdono è innanzitutto un’iniziativa del singolo soggetto nel suo rapporto con gli altri suoi simili. La persona, tuttavia, ha un’essenziale dimensione sociale, in virtù della quale intreccia una rete di rapporti in cui esprime se stessa: non solo nel bene, purtroppo, ma anche nel male. Conseguenza di ciò è che il perdono si rende necessario anche a livello sociale. Le famiglie, i gruppi, gli Stati, la stessa Comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello. La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale”.
Anche nei rapporti quotidiani viviamo oggi una militarizzazione delle coscienze che conduce alla condanna, alla chiusura. L’altro, chi non la pensa come noi, è letteralmente il nemico. La logica in cui siamo immersi è ormai proprio questa, del rapporto amico-nemico. Anche fra gli stessi familiari, anche fra cristiani, anche fra cattolici. Altro che perdono.
Ma tutto ciò, ammoniva Giovanni Paolo II, ha costi altissimi e ci condanna a vivere male. Certo, “la proposta del perdono non è di immediata comprensione né di facile accettazione; è un messaggio per certi versi paradossale”. Ma dobbiamo sapere che se il perdono “comporta sempre un’apparente perdita a breve termine”, di contro “assicura un guadagno reale a lungo termine”. L’esatto opposto della violenza, che “opta per un guadagno a scadenza ravvicinata, ma prepara a distanza una perdita reale e permanente”.
“Il perdono potrebbe sembrare una debolezza; in realtà, sia per essere concesso che per essere accettato, suppone una grande forza spirituale e un coraggio morale a tutta prova. Lungi dallo sminuire la persona, il perdono la conduce ad una umanità più piena e più ricca, capace di riflettere in sé un raggio dello splendore del Creatore”.
“Il ministero che svolgo al servizio del Vangelo – concludeva papa Wojtyła – mi fa sentire vivamente il dovere, e mi dà al tempo stesso la forza, di insistere sulla necessità del perdono… In questi tempi burrascosi, possa l’umana famiglia trovare pace vera e duratura, quella pace che solo può nascere dall’incontro della giustizia con la misericordia!”.
Da sottoscrivere.
A.M.V.