La fine di Draghi nel Paese della commedia dell’arte
Il commissario Mario Draghi si era messo di buzzo buono per governare l’Italia secondo le linee indicate dai poteri forti sovranazionali, dei quali egli era espressione. La ricetta era semplice: azzerare la democrazia, imporre l’emergenza continua, mortificare il parlamento, impoverire il Paese, rafforzare le oligarchie, mettere in chiaro che solo alcuni illuminati possono gestire certe transizioni. Non occorre essere eletti: quelle sono vecchie procedure del passato. Occorre l’investitura da parte di chi conta davvero, in primis la finanza internazionale e poi i santuari in cui si elaborano le visioni del futuro.
Dunque, al lavoro, e in fretta, secondo l’incarico ricevuto dal sodale Mattarella. Ma il commissario Draghi non aveva fatto i conti con una semplice circostanza. Ovvero che l’Italia è e resta il Paese della commedia dell’arte (non a caso conosciuta all’estero come commedia italiana). È il Paese del carnevale, delle maschere e dei lazzi, per cui qui da noi, come diceva Flaiano, la situazione politica può anche essere grave ma non è mai seria. E nella commedia dell’arte, tra le maschere, i lazzi, le buffonate, la confusione, gli arlecchini e i pulcinella, anche il più determinato dei commissari può perdersi. Anzi, quanto più è determinato, tanto più è destinato a perdersi nel caos inteso in senso letterale, come vuoto.
Draghi non è stato spedito a casa da una protesta popolare, perché il popolo è da tempo narcotizzato, impaurito, infiacchito. Né è stato mandato a casa da un’azione politica consapevole, strutturata e lungimirante, perché nella politica italiana ormai non vi è più nulla di strutturato e lungimirante. Se fosse caduto per volere del popolo o per un disegno politico avremmo avuto una situazione tragica e seria. E invece no. Draghi è stato spedito a casa dall’impazzimento di una maionese politica incomprensibile e indigeribile, dalle farneticazioni di parvenu che si credono statisti, dall’inestricabile groviglio di arroganza, arrivismo e cretineria che caratterizza l’orizzonte politico nostrano. Draghi è stato mandato a casa da un certo Conte (Conte!) e dai Cinque Stelle (i Cinque Stelle!).
Ora, chi draghiano o draghista non è mai stato (come nel nostro caso) dovrebbe rallegrarsi della crisi e del prossimo ritorno alle urne. Ma sarebbe possibile rallegrarsene solo se ci fosse una prospettiva. Invece la prospettiva non c’è. E non c’è perché le maschere che si muovono sul palcoscenico non sanno nemmeno che cosa sia una prospettiva politica: loro si agitano, urlano, lanciano motteggi, si provocano a vicenda, si tendono tranelli e stop. Perché sanno fare solo quello.
Dunque, cari amici che in queste ore esprimete soddisfazione perché il commissario Draghi se ne va, mi spiace fare la parte della cassandra ma mi sentirei di dire che sic stantibus rebus c’è poco da rallegrarsi.
Giulio Tremonti a proposito della crisi ha parlato di “finale molto sudamericano”, nel senso di confuso e illogico. È una definizione solo in parte azzeccata. Sarebbe sudamericano se avesse una componente drammatica e passionale, fatta di emotività ed esaltazione. Invece, ahinoi, è semplicemente un finale italiano. Cioè, appunto, da commedia dell’arte, in cui non c’è niente di serio. E con un pubblico mezzo addormentato che osserva distratto, lasciando che gli attori proseguano nelle loro insensatezze. Quindi prepariamoci: sul palcoscenico continuerà la farsa, all’insegna della totale irresponsabilità.
A meno che coloro che ancora conservano un’idea alta e degna della politica non riescano a coalizzarsi, togliendo di mezzo ominicchi e quaquaraquà. Ma la missione appare francamente improba. Sia perché il tempo stringe, sia perché di teste pensanti se ne vedono davvero poche.
A.M.V.