Storia / La battaglia di Castelfidardo e il vero volto della Rivoluzione
Centro studi Giuseppe Federici
Oggi è l’anniversario della battaglia combattuta il 18 settembre 1860 nel territorio compreso tra Loreto e Castelfidardo dall’esercito pontificio e dall’esercito sardo: lo ricordiamo pubblicando la conclusione del libro Les martyrs de Castelfidardo (1863), del marchese Anatole-Henri-Philippe De Ségur (1823-1902), fratello di monsignor Louis-Gaston de Ségur (1820-1881).
L’Autore termina la sua opera con una lunga citazione di un cappellano pontificio, fatto prigioniero dopo la battaglia, che descrive il vero volto della Rivoluzione, nascosto dietro le contingenze politiche che agitano le passioni dei popoli: l’odio verso la Fede cattolica e in particolare verso il Papato. Dietro la sacrilega rappresentazione descritta si nasconde la mano della setta massonica.
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Sono dunque arrivato al termine del compito, contemporaneamente così doloroso e così confortante, che mi ero proposto: ho concluso la storia dei Martiri di Castelfidardo. Dopo di allora molti avvenimenti sono accaduti e i fatti si sono succeduti sotto i nostri occhi con una rapidità impressionante. Protetto da una politica egoistica e dai sentimenti anti-cattolici dell’Inghilterra, il movimento rivoluzionario è cresciuto di giorno in giorno in potenza, in audacia e in empietà. Tutta l’Italia è caduta sotto la sua dominazione: ora regna e governa dal Quirinale. Il Papa è prigioniero dentro le mura di Roma, e il figlio di Vittorio Emanuele è fatalmente condannato, sotto pena di decadenza, a perseguire e completare con tutti i mezzi la opera di spoliazione e di rovina.
Ovunque i vescovi sono perseguitati, i buoni sacerdoti messi in prigione, gli ordini religiosi sciolti, i libri impuri ricoprono la nazione come una nube d’insetti immondi. I teatri sembrano luoghi di dissolutezza, i buoni tremano e i malvagi trionfano; in poche parole, la rivoluzione si mostra sempre di più nella sua orrenda realtà e corre verso la meta con l’audacia e l’insolenza che le viene dalla sicurezza del successo. Questa meta, questo traguardo, l’ha detto e lo ha ripetuto ogni giorno col più sfrontato cinismo, è il rovesciamento del Papato, la distruzione della Chiesa cattolica. Ma non lo ha solo detto, lo ha pure realizzato con atti e azioni e, là dov’è padrona, lo mostra da un giorno all’altro con atti di empietà e di orrore che il solo racconto riempie il cuore di indignazione e disgusto.
Posso darne un solo esempio citando una lettera di monsignor Oberson, cappellano delle Guardie pontificie, che fu fatto prigioniero a Castelfidardo e carcerato nella roccaforte d’Alessandria. È da questa prigione che assistette, il 16 ottobre 1860, ad uno spettacolo veramente satanico che lascio raccontare a lui stesso:
«La giornata era trascorsa in grande tranquillità: era la quiete che precede la tempesta. Verso le dieci di sera, spinto da uno strano presentimento, d’un tratto ho udito forti grida che subito non ho saputo distinguere, poi sentii una folla di persone che ripeteva Ora pro nobis, oppure Libera nos Domine. Corsi alla finestra e vidi uscire dalla caserma San Michele, che stava di fronte alla mia cella, una lunga processione di religiosi, ognuno con un cero acceso in mano.
In testa due tamburi, che scandivano i passi della processione, come a Roma. Seguiva un’enorme croce portata da un cappuccino, seguita da qualche centinaio di religiosi. Dopo di loro c’erano altri religiosi di tutti gli ordini, nei più bizzarri costumi, poi alcuni prelati, vescovi e cardinali con mitra, alcune guardie e infine il Papa portato sopra un trono.
A prima vista, notando i cappuccini che portavano la Croce e sentendoli cantare Ora pro nobis, avevo pensato alla sepoltura di qualche importante personaggio. Quando poi ho visto le mitre ed ho sentito quelle orrende grida di una massa sfrenata nel mezzo della notte, alla luce di cinque o seicento fiaccole, non ho avuto più alcun dubbio: stavo assistendo a una orribile profanazione. Si andava a sotterrare il Papa, perché si sappia che è inutile restargli fedele.
Sentii un sudore freddo imperlare la mia fronte e le mie ginocchia piegarsi: pensai di crollare, tanto ero oppresso dal dolore nel vedere un popolo cattolico abbandonarsi a simili orrori. Mi sforzai di comprendere ciò che questi disgraziati stessero cantando.
Il corteo si diresse sulla destra, verso le torri della fortezza d’un tratto si fermò. Uno di loro pronunciò un’orazione funebre. Era un insieme delle più orribili calunnie contro il Papa, i cardinali, i vescovi e tutto il clero cattolico, pronunciato da un energumeno che gridava come uno posseduto dal demonio, e quando arrivò a dirne una più enorme delle altre, tutta quella folla si mise a gridare “bravo! evviva!” battendo le mani a non finire. La conclusione del discorso fu che l’azione più bella del mondo, la più santa era quella di distruggere il Papa e tutta la pretaglia, e questa bella missione la Provvidenza l’aveva riservata a Garibaldi, a Cavour, a Fanti, a Cialdini e all’esercito piemontese, che doveva insediare Vittorio Emanuele in Vaticano! Questi orrori vennero applauditi con migliaia di “bravo!” e di “evviva!”
Un altro oratore voleva anch’egli farsi sentire, ma la voce flebile fu soffocata ben presto dagli applausi e dai rumori. Arrivarono poi sotto la mia finestra. Tremavo vedendoli e mi aspettavo qualche gazzarra nei miei riguardi. Li vidi in quel momento da vicino. Oh Dio! Quale orrore! I cappuccini erano i soldati della guardia nazionale. Avevano fatto del loro cappotto un abito da cappuccino, con sopra una camicia che sembrava una cotta e sulla quale, sul retro, si cadeva il cappuccio. I prelati, i vescovi e i cardinali avevano enormi corna sopra la testa, che fuoriuscivano ai due lati della mitra, come per significare che fossero demoni. Il Papa era immobile, era morto sotto una tiara enorme che l’aveva schiacciato sotto il suo peso.
Le litanie così dicevano:
San Garibaldi, liberatore d’Italia, ora pro nobis.
Santo Cavour che hai saputo sventare gli intrighi dei preti, ora pro nobis.
Santi Fanti e Cialdini, che avete saputo schiacciare La Moricière e l’infame armata dei preti, orate pro nobis.
Tutti i santi erano di questa specie. Tra l’uno e l’altro una serie di “evviva!” ai fratelli e agli amici. Così, passando vicino al quartiere dell’artiglieria si cantava: «Evviva i nostri fratelli artiglieri, che hanno colpito i soldati del Papa!»
Come con tali santi bisognava fare dei santi, col rischio di vedere il Paradiso deserto, essi pronunciarono anche nomi degni di figurare nelle Litanie Alessandrine, così si sentiva: Santa Libertà, Santa Uguaglianza, Santa Fraternità, Santa Repubblica! E che si estenda fino agli estremi confini della terra!
Sotto la mia finestra si cantò, verso di me: «Dagli oppressori dell’Italia, libera nos Domine. Dal Papa e dalla sua pretaglia, libera nos Domine! Ed una quantità di altre parole orrende e rivoltanti che mi guardo bene dal ripetere. Il 1793 non ha certamente prodotto qualcosa di più empio, di più idiota e di più disgustante di questo.
Di colpo si fece un gran silenzio. Era intervenuto il colonnello, quando ormai tutto era finito e lo scandalo portato a compimento. È la politica di oggi!
Voi senz’altro mi chiederete: ma chi sono questi esseri snaturati che si abbandonano a così orrende profanazioni ed a così abominevoli empietà? Sono i soldati del re galantuomo. Questa scena disgustosa è stata organizzata e diretta da un maggiore della Guardia nazionale, eseguita e applaudita dagli ufficiali e soldati della roccaforte di Alessandria. Ecco i soldati che si vogliono mandare a Roma per proteggere il Santo Padre, sorvegliare la città santa, difendere la religione.
Dio mio, ricordateVi della Vostra misericordia e rendete la vista ai ciechi di questo secolo!»
Tratto da: I Martiri di Castelfidardo del Marchese de Ségur, edizione a cura della Tecnostampa di Recanati, 2009, commento introduttivo e traduzione dal francese di Paolo Bugiolacchi
Fonte: centrostudifederici.org
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