Zelo amaro. Come rimediare
di Paolo Gulisano
Nella Chiesa cattolica da molto tempo ci sono più anime, come constatano con dolore i fedeli “normali”, coloro che non hanno particolari etichette. L’anima oggi dominante è la modernista, progressista, che cerca di piacere più agli uomini che a Dio, quella che viene a compromessi col mondo, fondamentalmente relativista. C’è poi un’anima più conservatrice, o tradizionalista, che cerca di salvaguardare la buona dottrina e la buona liturgia, ma anche questa non è priva di criticità, e di veri e propri errori. Lo si vede in certi dibattiti nei media e sui social, durante i quali spesso emerge il lato oscuro del conservatorismo cattolico: parole durissime verso chi la pensa diversamente, attacchi livorosi e totalmente privi di carità. Questi zeloti della purezza canonica non esitano a collocare motu proprio all’inferno chi sgarra dai binari dottrinali. Un comportamento profondamente sbagliato, corrispondente a quell’atteggiamento che la Tradizione (quella autentica) ha descritto come zelo amaro.
Il primo a utilizzare questa definizione fu niente meno che san Benedetto da Norcia. «Come vi è uno zelo amaro e cattivo che separa da Dio e conduce all’inferno, così vi è uno zelo buono, che separa dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna» (Regola, cap 72).
Come praticare quotidianamente lo zelo buono? Anzitutto avere rispetto del prossimo: «[I fratelli] si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore» (regola, cap. 72). Si tratta di vedere nel nostro prossimo (chiunque esso sia) un’anima creata a immagine e somiglianza di Dio. È Gesù stesso che ce ne fa un obbligo, l’oggetto di un «comandamento nuovo»: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13, 34).
In secondo luogo la pazienza: anche quando il nostro prossimo non è perfetto, lo dobbiamo ugualmente amare. Ecco la seconda caratteristica dello zelo: «[I fratelli] sopportino con grande pazienza le loro [dei fratelli] infermità fisiche e morali» (Regola, cap. 72).
Le parole di san Benedetto rivelano una profonda conoscenza della realtà. Scandalizzarsi degli errori, o delle miserie umane, significa non conoscere le persone, non conoscere la vita. Solo la carità soprannaturale può gettare un velo pietoso sulle miserie degli altri e farci amare il prossimo così com’è.
Infine, occorre una disponibilità nel rendere servizio. «[I fratelli] facciano a gara nell’ubbidirsi a vicenda» (Regola, cap. 72). Ecco la terza nota dello zelo buono: l’aiuto reciproco. È quanto scrive san Paolo ai Filippesi: «Ciascuno guardi non ai propri interessi, ma a quelli degli altri» (Fil 2, 4). Dio guarda con un occhio di riguardo l’anima che sa dimenticare se stessa per darsi al prossimo: pensare agli altri piuttosto che ai propri interessi personali è segno di vera carità soprannaturale.
Ecco lo zelo che deve animarci. Lo zelo che porta a Dio, mentre lo zelo amaro ha la sua fonte non nell’amore di Dio, ma nell’orgoglio, cioè nell’amore di sé. Gli scribi e i farisei interrogavano Gesù, lo mettevano alla prova, per tendergli trabocchetti: il loro scopo era fargli dire qualche parola compromettente, il tutto sotto il manto dello zelo. Fingevano di cercare la verità, fingevano lo zelo per la Legge di Dio. Ancora oggi si riscontra questo zelo amaro, parente stretto dell’ipocrisia, nell’atteggiamento astioso e superbo di chi condanna senza pietà. Ancora una volta bisogna citare san Benedetto che dice dell’Abate: «Anche nel correggere agisca con prudenza e senza alcuna esagerazione perché non avvenga che, volendo raschiare troppo la ruggine, si rompa il vaso». E poi quella frase che vale tutto un trattato: «[L’abate] odi i vizi, ami i fratelli, Oderit vitia, diligat fratres» (Regola, cap. 64).
Questo zelo amaro degli ambienti conservatori può arrivare fino all’eresia. Ultimamente sembrano in effetti riemergere in essi i germi di un’antica eresia, che si credeva scomparsa, e che invece ha ancora degli epigoni: il giansenismo. Fu un movimento religioso, filosofico e politico che proponeva un’interpretazione del cattolicesimo sulla base della teologia elaborata nel XVII secolo da Giansenio. L’impianto di base del giansenismo si fonda sull’idea che l’essere umano nasca essenzialmente corrotto e, quindi, inevitabilmente destinato a commettere il male. Senza la grazia divina, l’uomo non può far altro che peccare e disobbedire alla volontà di Dio; ciononostante, alcuni esseri umani sono predestinati alla salvezza, mentre altri non lo sono, e vengono quindi condannati da chi si erge a giudice supremo al posto di Dio. Tra i rimedi agli errori del giansenismo, il principale fu il culto del Sacro Cuore di Gesù, il quale riportò l’attenzione dei cristiani sull’importanza dell’umanità di Cristo e sulla misericordia del Signore. Tale culto giunse alla sua forma attuale grazie a santa Margherita Maria Alacoque, monaca di clausura francese del convento della Visitazione di Paray-le-Monial negli anni a partire dal 1673, la quale supportò le proprie indicazioni su questa devozione testimoniando alcune apparizioni di Cristo. Tale culto fu inviso ai giansenisti, che si consideravano vicini allo spirito originario del cristianesimo, e in generale ai loro sostenitori, spesso colti ed eruditi, che la ritenevano una stravagante novità.
Un autore che ha affrontato più recentemente il problema dello zelo amaro è stato il beato Columba Marmion, abate benedettino irlandese, la cui spiritualità ebbe una forte influenza sull’arcivescovo Marcel Lefebvre. Scrisse nella sua opera Le Christ idéal du Prêtre: «Solo il cuore può toccare i cuori. Noi agiamo sulle anime nella misura in cui le amiamo… Che cos’è lo zelo? È il movimento stesso dell’amore, ma intensificato al punto tale da rendere l’anima capace di trascinare gli altri nella propria scia. Questo deve essere l’ardore della nostra carità: volere vivamente il regno di Dio nelle anime e nella società; allora troveremo le parole che confortano, combatteremo il peccato, accetteremo le pene, la fatica, il dono e il sacrificio di noi stessi.»
Solo il cuore può parlare al cuore: le parole dell’abate irlandese richiamano il motto del cardinale inglese (e ora santo) John Henry Newman, una figura che non è mai stata molto in auge in ambito conservatore, ma andrebbe profondamente conosciuta e studiata. Anche Newman ebbe qualche problema con gli zeloti ultraconservatori del suo tempo, dovendo subire il dubbio, l’insinuazione, il sospetto temerario. Fu invece un grande combattente contro il liberalismo teologico, avendo intravisto in nuce i germi di quello che sarebbe diventato il Modernismo, ma lo affrontò con sapienza teologica e carità nell’operare. Chi non è animato dalla carità, è destinato a disperdere il patrimonio di fede e di tradizione che vorrebbe conservare.
Oggi il Depositum Fidei non va semplicemente conservato, ma custodito. L’azione del custodire ha in sé un valore di amorevolezza, di trepidazione, come quello di Maria che serbava il Verbo di Dio «custodendolo nel suo cuore». E in un cuore in cui c’è tale presenza divina non c’è posto per la cattiveria e per lo zelo amaro.