Anche l’abito liturgico fa il monaco. Ovvero: perché la Casa di Dio non va spogliata
“È necessario acquisire il senso della Liturgia come azione di Cristo e della Chiesa e non come un atto privato. Per questo nessuno, anche se sacerdote, può mutare, aggiungere o togliere elementi propri della liturgia stabilita dalla Chiesa ed edita nell’editio typica“.
Don Enrico Finotti, del quale ci siamo già occupati per i suoi precedenti libri Il mio e il vostro sacrificio e Se tu conoscessi il dono di Dio, scende nuovamente in campo a difesa della liturgia (anzi della Liturgia, con la L maiuscola, come scrive lui) e lo fa con Nell’attesa della tua venuta. Il liturgista risponde, edito anche questa volta da Chorabooks, la casa editrice animata dal maestro Aurelio Porfiri.
Nato a Rovereto, classe 1953, presbitero dell’arcidiocesi di Trento dal 1978, don Finotti, curatore della rivista Liturgia: culmen et fons e autore di numerose pubblicazioni, è un innamorato della liturgia e, ciò che più conta, riesce a far innamorare anche i suoi lettori.
In questo terzo volume la formula è, come nei precedenti, quella delle risposte ad alcune domande poste dai fedeli, il che evita i voli pindarici e le riflessioni un po’ astruse, permettendo a don Finotti di andare al cuore dei problemi
Sentite, per esempio, che cosa dice a proposito della pastorale giovanile, uno dei terreni di conquista preferiti dai barbari (definizione mia, non di don Finotti) che, con il pretesto dell’animazione liturgica, fanno terra bruciata della tradizione e del culto autentico da rendere a Dio: “La ‘pastorale giovanile’ non può ammettere il capriccio e non può rimandare ad una presunta futura maturazione che non verrà mai. Se non si inizia subito ad introdurre i bambini e i giovani nell’esperienza delle leggi rituali e liturgiche, atte ad educare alla spiritualità, alla proprietà, alla vera devozione, domani avremo un popolo di Dio estraneo alle leggi fondamentali della vita interiore e del culto liturgico”. Applausi!
Moltissimi gli argomenti raccolti in questo terzo volume (dalla Via Crucis alle preghiere dei fedeli, da certe versioni “innovative” del Credo alla veglia pasquale, dalla cremazione all’inchino del capo all’Et incarnatus est), ma qui ci vogliamo concentrare sull’uso dei paramenti preziosi e alla “lode” che don Finotti innalza ai sacristi, grazie ai quali in molte nostre chiese ancora si conservano pezzi di grandissimo valore artistico e spirituale.
Purtroppo però, annota sconsolato l’autore, non pochi paramenti sacri “sono stati lasciati deperire, altri smontati per fare casule moderne, o comunque abbandonati e non più usati”. Perché? Tante le cause: incuria, trascuratezza, ignoranza. Ma una cosa è certa: “Il Concilio, come si vorrebbe far passare, non ha nel modo più assoluto comandato o consigliato l’abbandono dei paramenti storici, anzi ne ha sollecitato il restauro e la conservazione”.
È vero che il Concilio, nel proporre un criterio per la confezione degli abiti liturgici nuovi, raccomanda “una nobile bellezza” e di non ricercare “una mera sontuosità”, tuttavia “la nobile semplicità non significa pauperismo, minimalismo e mediocrità, ma piuttosto l’opposto”. Infatti, “gli abiti liturgici devono essere nobili nella qualità dei materiali, nelle forme e nell’ornato. Non più prodotti seriali a basso prezzo e con fogge dozzinali e sommarie, ma abiti di qualità e spessore artistico”.
Gli abiti liturgici, in quanto tali, devono avere una loro funzionalità, ma senza mai dimenticare anche lo scopo di rivestire degnamente i ministri sacri. “Occorre perciò un gusto specifico e una attenta formazione liturgica, sia per confezionare, sia per scegliere un campionario di valore”.
“Forse è giunto il tempo – afferma don Finotti – di dotare le nostre sagrestie di apparati veramente nobili, che per la loro proprietà possano varcare le mode passeggere ed essere ancora apprezzati e usati dai posteri. In tal modo si spende bene e si crea buon gusto e cultura liturgica elevata. In questo orizzonte i paramenti antichi non solo ci mettono in comunione con le generazioni cristiane che ci hanno preceduti, dimostrando il genio artistico dei secoli e proclamando la continuità con la Liturgia di sempre, ma ci sono maestri in ordine alla proclamazione del primato di Dio nella Liturgia. Essi affermano l’altissima dignità del ministro sacro, soprattutto quando in timore e tremore accede all’altare e compie il Sacrificio, agendo in persona Christi”.
I paramenti preziosi possono metterci a disagio solo se abbiamo “una visione riduttiva del sacerdote”. Se vediamo in lui un semplice animatore di assemblea non riusciamo a capire il perché di ricoprirlo di indumenti speciali. Invece, se siamo consapevoli del senso del sacro e “dello stare alla presenza del Mistero e dell’incedere adorante nel santuario davanti alla divina Maestà”, ecco che l’intero complesso dei paramenti ci appare per ciò che è: una delle modalità con le quali la Chiesa rende onore e gloria a Dio aiutando i fedeli a fare altrettanto attraverso la partecipazione all’azione liturgica.
Ecco perché i paramenti classici sono importanti. Ed ecco perché, di conseguenza, è necessario verificare lo stato della loro conservazione e, quando è il caso, procedere con gli adeguati restauri, ma soprattutto è importante che i paramenti siano usati nelle occasioni dovute. Essi “non sono, né sono mai stati, abiti quotidiani, ma paramenti per le celebrazioni solenni”. Pertanto “la Settimana santa, il Triduo pasquale, le domeniche di Pasqua e le solennità dell’Ascensione e di Pentecoste sono giorni quanto mai propri per indossare questi apparati e far percepire al popolo cristiano la grandezza dei misteri celebrati e anche l’alto tenore della fede dei nostri padri e della storia religiosa delle nostre comunità, anche piccole”.
I parroci sotto questo profilo hanno una responsabilità alla quale non devono sottrarsi. Da loro infatti “dipenderà la formazione di sacristi sensibili a questi valori e capaci di assolvere al loro impegno”, ma, d’altro canto, “anche la competenza, la convinzione e l’entusiasmo di molti sacristi potrà risvegliare nei loro parroci una maggiore attenzione verso un patrimonio che è del popolo di Dio e che richiede non detrattori, ma buoni amministratori”.
E che cosa rispondere a chi obietta che la Chiesa deve essere povera?
Risposta: “È vero, ma tale povertà va esercitata innanzitutto nella vita personale e familiare dei cristiani e anche in quella pastorale e istituzionale della comunità”. La liturgia e il suo decoro vanno invece “curati con la massima proprietà, fino all’ultima spiaggia, quando a malincuore, come in taluni frangenti della storia della Chiesa, si dovette soccombere alla necessità”.
Insomma, “la casa di Dio è l’ultima che va spogliata, dopo averlo fatto con le nostre case. Così ci insegnano i santi, in particolare il santo curato d’Ars”.
Tutto il contrario di ciò che spesso avviene oggi, quando troppo spesso, anziché rendere più povero ed essenziale il nostro stile di vita, ci comportiamo da consumisti e materialisti incalliti, ma pretendiamo che ad impoverirsi sia il culto da rendere a Dio.
E che cosa direbbe don Finotti davanti aagli abiti liturgici scelti per i sacerdoti che celebreranno le Sante Messe durante l’Incontro mondiale delle famiglie a Dublino? Che cosa direbbe di quelle casule dai colori pastello che evocano l’arcobaleno e di quei simboli pagani disegnati proprio al centro?
Aldo Maria Valli
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