L’Italia e l’eclisse della pratica religiosa
di Franco Garelli
I dati più recenti (e attendibili) sulla pratica religiosa in Italia riguardano l’anno 2022 (anno perlopiù libero dalle restrizioni del lockdown) e illustrano il seguente scenario: chi partecipa ad un rito religioso almeno una volta alla settimana (per i cattolici, la messa alla domenica) è circa il 19% della popolazione; per contro, sono assai più numerosi quanti in quell’anno non hanno mai frequentato un luogo di culto (31%), se non per eventi particolari, come i riti religiosi di passaggio (battesimi, matrimoni, funerali).
Messi insieme, i «praticanti assidui» e i «mai praticanti» ammontano al 50% degli italiani, il che significa che l’altra metà della popolazione rientra in quel vasto gruppo di persone che frequenta un luogo di culto in modo discontinuo (circa una volta al mese o più volte l’anno) o occasionale (una tantum), magari nelle grandi festività.
Una lettura dei dati
I dati qui esposti provengono dall’Indagine multiscopo dell’ISTAT (svolta su un campione assai ampio e rappresentativo di popolazione italiana – qui il grafico coi risultati) che, tra le varie informazioni, rileva anche la frequenza con cui le persone si recano in chiesa o in un altro luogo di culto.(1)
Questi dati sulla pratica religiosa, dunque, non concernono soltanto le chiese e le messe cattoliche; ma, per la particolare configurazione religiosa del nostro paese, nel quale ancor oggi circa il 70% della popolazione dichiara un’appartenenza al cattolicesimo,(2) sono ampiamente applicabili a ciò che succede in campo cattolico.
Alla domanda dell’ISTAT hanno risposto direttamente i soggetti con più di 14 anni, mentre per i minori dal 6 ai 13 anni la risposta è stata fornita dai genitori.
Riprendendo l’analisi, si osserva anzitutto che il dato (del 2022) della frequenza settimanale ad un rito religioso comunitario è il più basso che si riscontra nella storia recente del nostro paese. Negli ultimi 20 anni (dal 2001 al 2022), il numero dei «praticanti regolari» si è quasi dimezzato (passando dal 36% al 19%), mentre i «mai praticanti» sono di fatto raddoppiati (dal 16% al 31%). In questo arco di tempo, il trend al ribasso è stato perlopiù progressivo, di anno in anno, ad eccezione di un picco all’ingiù che si è registrato nell’ultimo periodo, che è coinciso con l’esplosione del Covid-19.
In 18 anni (dal 2001 al 2019), i praticanti regolari sono diminuiti di poco meno di un terzo; mentre nel solo triennio (2019-2022) il loro numero è sceso del 25%.
Per entrambi i periodi (2001-2019 e 2019-2022), la riduzione della pratica religiosa ha coinvolto tutte le classi di età, anche se si è manifestata in modo più marcato soprattutto nella componente verde della popolazione, in particolare tra i giovani dai 18 ai 24 anni e tra gli adolescenti (14-17 anni).
Sono questi i gruppi di età che più si sono allontanati negli ultimi 20 anni dalla pratica religiosa regolare, con un calo di oltre i 2/3 per quanto riguarda i giovani e gli adolescenti, a fronte di una riduzione del 50% dei praticanti assidui tra le persone adulte e mature e del 30-40% tra la popolazione anziana.
Detto altrimenti, i praticanti assidui tra gli adolescenti sono passati dal 37% del 2001 al 20% del 2019 e al 12% del 2022; mentre, tra i 18-19 anni, la pratica regolare che coinvolgeva nel 2001 il 23% dei soggetti, è scesa al 11% dei casi nel 2019 e all’8% nel 2022.
Si può dunque affermare, a questo punto, che la disaffezione dei giovani e degli adolescenti dalla pratica religiosa è un fenomeno che viene da lontano, rientra in un trend di medio-lungo periodo, che tuttavia si mantiene o subisce un’accelerazione proprio negli anni post-Covid.
Quali riflessioni?
Quali riflessioni si possono fare sulla base di queste indicazioni empiriche? Anzitutto emerge che «l’appuntamento settimanale in un luogo di culto, per i cattolici la messa domenicale, attrae sempre di meno gli italiani»,(3) nonostante che il dato sull’affiliazione religiosa si mantenga ancora su livelli elevati.
Per la componente cattolica, si delinea qui un doppio messaggio alla Chiesa: a essere messo in discussione non è soltanto il precetto o l’invito a santificare le feste, quanto l’idea stessa che la partecipazione al culto comunitario sia per i fedeli (per i seguaci di una religione) un momento fecondo di crescita e di espressione della fede, un criterio vitale di appartenenza a una comunità religiosa.(4)
Seconda riflessione. Il dato del 19% di italiani che ogni settimana si reca in chiesa o in un luogo di culto attesta senza dubbio che anche in Italia la frequenza regolare ai riti religiosi è sempre più un fenomeno di minoranza; ma non sino al punto di allineare il nostro paese agli scenari ormai prevalenti nella maggior parte delle nazioni del Centro-Nord Europa (di cultura sia cattolica sia protestante), ove la partecipazione regolare al culto coinvolge – a seconda dei casi – dal 3% al 7-8% della popolazione. Su questo aspetto, l’Italia si distingue ancora nel panorama europeo, al pari di poche altre realtà nazionali, come il Portogallo e la Polonia.(5)
L’effetto lockdown
Una terza riflessione riguarda l’andamento della pratica religiosa nel periodo della pandemia, un tempo in cui gli ambienti ecclesiali si sono a lungo interrogativi sul rischio – dopo questa drammatica esperienza – di non ritrovare il proprio popolo. Chi era solito partecipare in modo assiduo ai riti comunitari, tornerà alla messa domenicale in presenza, oppure le celebrazioni in streaming avranno reso più labile questo legame?
Si temeva, in altri termini, che l’interruzione delle attività potesse produrre un ulteriore «scrollo» dell’albero della fede e della Chiesa in Italia, allontanando maggiormente le persone la cui religiosità è incentrata più su motivi culturali che spirituali.
In effetti, lo scrollo causa Covid-19 per la pratica religiosa sembra essersi puntualmente verificato, ed è individuabile (come s’è detto) nel 25% circa di soggetti in meno che, nel 2022, mancano all’appello rispetto all’anno precedente la pandemia (2019). E tra quanti mancano all’appello spiccano – come abbiamo segnalato – ancora una volta più gli adolescenti e i giovani che le persone adulte e anziane, un trend negativo che, in parte, sembra ora estendersi ai bambini.
Si tratta certamente di un fenomeno connesso alla sospensione delle attività formative e della vita di oratorio che si è prodotta durante il lockdown, che tuttavia si innesta su una tendenza di più lungo corso dei giovanissimi a distanziarsi anzitempo (rispetto ai coetanei del passato) da un legame religioso.
Un discorso simile, pur più attenuato, si può fare per la situazione dei bambini, in gran parte tornati dopo il lockdown negli ambienti ecclesiali per i corsi di catechismo e i momenti di socializzazione, una presenza tuttavia che tende a essere in vari casi disgiunta dalla frequenza ai riti comunitari.
Una prova vitale per le Chiese
Oltre a quanto sin qui esposto, i dati ISTAT sull’andamento della pratica religiosa in Italia negli ultimi 20 anni delineano i movimenti che si sono prodotti in questo campo a livello territoriale.
Come si sa, da sempre le regioni del Sud presentano dei tassi di religiosità superiori a quelli che si riscontrano nelle regioni del Nord e soprattutto in quelle del Centro Italia, e questo dato di fondo è una costante anche degli ultimi 20 anni, nei quali vi è stato un sensibile calo della pratica religiosa su tutto il territorio nazionale. Ciò per dire che – a grandi linee – in tutto questo periodo la pratica religiosa regolare al Sud ha interessato una quota di popolazione del 20% circa superiore a quella riscontrata nelle regioni del Centro-Nord; pur in una situazione in cui ovunque (sia al Centro-Nord che al Sud) i praticanti regolari sono diminuiti grossomodo del 45-50% nel periodo 2001-2022.
Attualmente, a fronte di una media nazionale del 19% circa, la frequenza costante ai riti religiosi coinvolge il 23% della popolazione delle regioni meridionali e il 17% circa degli abitanti nelle regioni del Centro-Nord Italia.
Per quanto riguarda le differenze di genere, i dati ISTAT continuano a segnalare – per il periodo considerato – una maggior presenza delle donne rispetto agli uomini nella pratica religiosa assidua, riscontrabile in tutte le classi di età.
Col passare degli anni (dal 2001 al 2022), si riduce la quota sia di uomini che di donne che si recano ogni settimana in un luogo di culto, ma il gap di genere a favore delle donne si mantiene nel tempo (nell’ordine medio di un 25% in più di casi).
Nell’ultimo anno di rilevazione (il 2022), la pratica regolare coinvolge in Italia il 15% della popolazione maschile e il 22% della popolazione femminile.
Altra indicazione (in parte curiosa) concerne l’anno in cui – secondo le rilevazioni ISTAT – è avvenuto in Italia il sorpasso dei non praticanti su quanti dichiarano una pratica religiosa assidua. Si tratterebbe del 2018, quando, per la prima volta nella storia recente del nostro paese, i no-churchgoers hanno avuto il sopravvento per un soffio (25% rispetto al 24,9%), per poi crescere in modo deciso negli anni successivi (soprattutto nel dopo Covid), sino al dato ultimo del 2022 che individua – sull’insieme della popolazione nazionale – i «mai praticanti» al 32% e i «praticanti assidui» al 19%. Insomma, l’impressione di fondo è quella di un trend al ribasso assai consistente, che non si arresta nemmeno di fronte ai richiami religiosi di un papa (come quello attuale) che gode di un buon credito pubblico.
Infine, occorre notare che il calo della pratica religiosa negli anni post-Covid è una tendenza non solo italiana, ma che coinvolge tutti i paesi occidentali, anche con percentuali assai superiori a quelle nostrane. (6) Ovunque si parla di «riduzione della partecipazione in presenza», «di abitudine di molti a connettersi ai riti da remoto», di «faticoso ritorno alla normalità»; o della previsione di alcuni che, in questo campo, «nulla sarà come prima».
Non è il caso di ritenere che il «mal comune sia un mezzo gaudio», anche se è indubbio che ciò che è accaduto in questi ultimi anni rappresenti una prova vitale sia per le Chiese sia per i credenti di ogni confessione religiosa.
(1) Come si è detto, l’ISTAT (l’Istituto nazionale di statistica), nel rilevare ogni anno tutta una serie di notizie sulla vita quotidiana della popolazione, prevede anche la domanda «Abitualmente con che frequenza si reca in chiesa o in altro luogo di culto?», mentre non registra l’affiliazione religiosa, considerato un dato «sensibile». Il campione è composto da oltre 20 mila famiglie e 45 mila individui residenti. Un’interessante analisi di questi dati si trova in M. Ventura, «Chiese deserte, ma la fede è più consapevole», in La Lettura, del Corriere della Sera, 8 gennaio 2023, pp. 8-9. L’approfondimento dei dati ISTAT qui riportati è stato reso possibile grazie a colloqui avuti con il dott. Sante Orsini, responsabile dell’Indagine su «Famiglie e vita quotidiana».
(2) Cf. le indagini empiriche più recenti e le indicazioni al riguardo offerte dai principali Istituti demoscopici.
(3) M. Ventura, ivi, p. 8.
(4) F. Garelli, Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, Il Mulino, Bologna, 2020, p. 65.
(5) A. Pérez-Agote (a cura), «Portraits du catholicisme. Une comparaison européenne», Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2012; S. Lefebvre e A. Pérez-Agote, «The Changing Faces of Catholicism», in Annual Review of the Sociology of Religion, Brill, vol. IX, Leiden 2018.
(6) Cf. F.X. Rocca e K. Maher, «Le chiese raccolgono un numero ridotto di fedeli da quando esiste il Covid», in The Wall Street Journal, April 7, 2023.