“Humiliat et sublevat”, ossia Nabucodonosor e il grano di senapa
di Rita Bettaglio
Ego, Nabucodonosor, quietus eram in domo mea et florens in palatio meo (Dn 4,1). Io Nabuchodonosor vivea in pace nella mia casa, e felice nella mia reggia.
Così comincia il racconto del sogno di Nabucodonosor, nel libro del profeta Daniele. Un albero grande e robusto, carico di frutti, riparo per le bestie della terra e gli uccelli del cielo, viene tagliato e il suo ceppo legato con catene di ferro e di bronzo.
Così i viventi sappiano che l’Altissimo domina sul regno degli uomini e che egli lo può dare a chi vuole e insediarvi anche il più piccolo degli uomini (Dn 4,14).
Humillimum dice il testo della Vulgata: il più abbietto, il più piccolo, quello che sta più vicino alla terra.
Ma perché oggi vengo a cianciare di Nabucodonosor e di sogni? Che c’azzecca con noi, fulgidi uomini (e donne, per carità) dell’ancor più fulgido XXII secolo?
Fatto si è che la Sacra Scrittura pullula di attestazioni della preferenza di Dio per gli umili, fino ad arrivare alla sua serva, l’umile per eccellenza, la beata Vergine Maria, colei che il beato Bartolo Longo appellò l’onnipotente per grazia.
E, allora, perché noi non la vogliano capire e cotale faccenda continua a risultarci sommamente indigesta?
Non sarà che, in fondo in fondo, proviamo una malcelata invidia per Dio onnipotente? Che, sotto sotto, non troviamo giusto che lui sia Dio e noi no? Gli umili non ci garbano affatto perché li consideriamo deboli, senza carattere. Invece Dio elogia la pietra scartata dai costruttori… mah…
Se nel segreto della nostra anima troviamo questo oscuro, inconfessabile sentimento, non dobbiamo stupirci più di tanto: tendiamo all’idolatria di noi stessi fin da quel famigerato giorno nel giardino dell’Eden, da quell’albero e da quel sibilante seduttore. Prima ancora di noi, l’invidia per Dio incendiò il cielo con la rivolta subitanea, drammatica e mortifera di Lucifero e dei suoi angeli.
Sic stantibus rebus, diceva la mia prof del ginnasio (chissà se sarà ancora tra noi, mi piacerebbe tanto rivederla), dobbiamo ammettere che abbiamo un problema.
Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? chiede il padrone della vigna all’operaio mormoratore, che siamo tutti noi.
Chiamati alla vita unicamente per la bontà divina (lui non aveva certo necessità di creare l’universo, l’uomo, e noi in particolare), ce ne lagniamo continuamente. Come disse don Dolindo Ruotolo, non siamo infermi che domandano al medico la cura, ma che gliela suggeriscono.
Sappiamo, perché ce lo ha detto Gesù, che il regno dei cieli è simile a un granellino di senapa, il più piccolo dei semi.
Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami (Mt 13,32).
Possiamo dire altrettanto di noi? Sui nostri rami fanno forse il nido gli uccelli del cielo? Serviamo almeno a dar refrigerio a qualche stanco viandante nella calura meridiana?
Ogni grande cosa nasce piccola, anzi piccolissima. Dio ha voluto questo anche nella natura. Ogni cosa per crescere ha bisogno di pazienza e di cura, come ben sanno i contadini.
Ogni ciottolo, di fiume o di mare, sta lì da anni annorum e si lascia levigare dallo scorrere continuo dell’acqua. Così l’ufficio e la Parola di Dio, il lavoro e la stabilità lavorano il monaco. Egli ne è trasformato e, a differenza del ciottolo, completamente impregnato.
Il ciottolo non si sogna neppure di fermare il fiume, di parlamentare con lui, di dirgli come e dove scorrere. Il monaco attraverso la stabilità si pone volontariamente sotto l’azione dell’acqua, acqua viva che zampilla per l’eternità.
Perché l’uomo di oggi, credente o no, non vuole più abbracciare alcuna stabilità di vita, non solo quella monastica, ma è come l’erba dei tetti, che prima che sia strappata dissecca?
A Nabucodonosor il Signore tolse il regno, venne scacciato e si ritrovò a vivere ramingo cibandosi d’erba come i buoi.
Finito quel tempo, io Nabucodònosor alzai gli occhi al cielo e la ragione tornò in me e benedissi l’Altissimo (Dn 4,31). Il grande sovrano babilonese, nella sofferenza, aveva trovato la verità su se stesso e su Dio, fino a dire: egli dispone come gli piace delle schiere del cielo e degli abitanti della terra. Nessuno può fermargli la mano e dirgli: Che cosa fai?
E noi a che punto stiamo? Abbiamo capito che il Signore rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta? Humiliat et sublevat: ogni umiliazione è un passo avanti, uno scalino di quella scala dell’umiltà che san Benedetto addita ai monaci nel cap. 7 della sua Regola. Questa novella scala di Giacobbe, è la nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo.
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Don Camillo guardò in su verso il Cristo dell’altar maggiore e disse: «Gesù, al mondo ci sono troppe cose che non funzionano». «Non mi pare», rispose il Cristo. «Al mondo ci sono soltanto gli uomini che non funzionano».