Sull’importanza dello stare in panchina
A proposito delle analogie tra la pallacanestro e la nostra fede [qui, qui e qui gli articoli precedenti], un amico lettore, Mauro, mi scrive per suggerire che tra i fondamentali potrebbe essere inserita anche la capacità di accettare di stare in panchina.
“Spesso vedo che i ragazzi, compreso mio figlio, quando vengono messi in panchina anche per due o tre partite consecutive, si irritano, perché non accettano di fare sacrifici negli allenamenti settimanali per poi stare a bordo campo il giorno della partita. A volte si mettono a criticare l’operato dei loro compagni e le scelte del coach”.
In realtà nel minibasket (praticato da chi ha un’età fra i cinque e gli undici anni) i regolamenti spesso prevedono che tutti i giocatori a disposizione del coach entrino in campo e giochino lo stesso numero di minuti, però è vero che l’allenatore non sempre può convocare per la partita tutti i giocatori che si sono allenati durante la settimana, il che può provocare un senso di frustrazione fra gli esclusi.
Scrive Mauro: “Io dico sempre a mio figlio che la panchina è il miglior strumento per coltivare l’umiltà, qualcosa che va ben oltre il gioco. Non serve farsi tante domande sui motivi. Un perché ci sarà. Inoltre il coach neppure è tenuto a giustificare ogni sua scelta. Meglio fare come Giobbe ringraziando sempre Dio, che vede oltre le opere dei giocatori e le strategie degli allenatori”.
Essere messi in panchina non fa mai piacere, ma saperlo accettare fa parte della vita. Anche stando in panchina si può dare una mano, per esempio incitando i compagni. L’importante è farsi trovare pronti al momento della chiamata.
Per un giovane non è facile digerirlo. Poi – molto prima di quanto si possa immaginare – viene un tempo in cui si scopre che non si può fare altro se non stare in panchina.
A.M.V.