Uomini e cani. Quell’antico rapporto che oggi si sta ammalando a causa del nostro stato confusionale
Cari amici di Duc in altum, tocchiamo oggi un argomento che può sembrare eccentrico per il nostro blog, ma lo è solo in apparenza. Mi riferisco alla relazione di noi umani con il cane, soprattutto alla luce di alcune recenti notizie riguardanti cani di grossa taglia che hanno aggredito persone e anche bambini. In proposito vi propongo una riflessione della nostra Michela Di Mieri (autrice, lo ricordo, del bel libro Mi sono innamorata dell’eterno). Michela infatti è anche addestratore cinofilo e presta la sua opera come volontaria in un canile. Di Michela ricordo la serie di articoli in corso di pubblicazione nel blog dedicata alle storie di santi e animali.
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di Michela Di Mieri
Mi permetto di usare Duc in altum per condividere alcune riflessioni che, da cattolica, addestratore cinofilo, volontaria in canile e proprietaria da quasi trent’anni di cani da pastore, ho maturato soprattutto a contatto con alcuni ambienti nei quali mi trovo mio malgrado a operare.
Partiamo da un vecchio adagio che sicuramente tutti conosciamo: il cane è il migliore amico dell’uomo.
E, allora, forse, a qualcuno sarà venuto più di un dubbio, di fronte ai tragici fatti di cronaca delle scorse settimane, che ci raccontano di un’amicizia in cui qualche cosa deve essersi inceppato; perché un amico, il tuo migliore amico poi, non ti sbrana, non ti manda al Creatore, specie se sei poco più di un neonato.
Dunque, sorge lecita la domanda: ma il cane sarà ancora il nostro migliore amico? E la risposta è, inequivocabilmente, inoppugnabilmente, certissimamente, sì.
A patto che.
Un “a patto che” meritevole di una lucida disamina, perché le 70 mila aggressioni da parte di cani a danno dell’uomo, denunciate ogni anno in Italia (a cui vanno sommate le innumerevoli di cui non abbiamo contezza), impongono un paio di riflessioni scevre da interessi pecuniari di parte o da ideologismi in cui, come in tutti i sistemi ideologici, sono i presupposti stessi a essere errati, con ricadute deleterie per tutti, umani e cani.
Alla fine del mio ragionamento, per chi avrà la pazienza di arrivare in fondo, scopriremo che questo tragico fenomeno non è altro che una delle tante manifestazioni della confusione esistenziale, etica, antropologica che contraddistingue questi nostri tempi.
In una parola, si dimostrerà che, anche per quanto riguarda il plurimillenario rapporto con l’animale di più atavica domesticazione e che più di ogni altro condivide l’esistenza con noi, una volta perduto il senso dell’ordine universale in cui un tempo il cristiano si riconosceva, si brancola in un disordine che vede vittime innanzitutto i cani, verso i quali abbiamo ogni responsabilità. Perché il cane lo abbiamo fatto noi.
Cos’è, infatti, un cane? Il suo nome scientifico è canis lupus familiaris. Canis, poiché appartiene alla famiglia dei canidi; lupus, essendo a tutti gli effetti un lupo; infine, l’aggettivo familiaris, in quanto è stato reso domestico da noi umani dai trentamila ai ventimila anni or sono (così almeno ritengono gli studi più recenti). Possiamo dunque definire il cane come un lupo domestico, un prodotto zootecnico, ottenuto tramite una selezione artificiale operata dall’uomo, a partire dagli esemplari di lupo maggiormente docili. Ovviamente, questo lungo e impegnativo processo, iniziato con un canide selvatico e conclusosi con le razze che oggi conosciamo, è stato intrapreso per fini utilitaristici, per potersi avvalere di questo predatore dalla marcata struttura sociale in determinate attività, quali la caccia, la difesa delle persone, delle proprietà e degli armenti, la conduzione delle greggi, la guerra e, in tempi relativamente recenti (parliamo dall’età moderna in avanti), la compagnia.
Sebbene non fossero a conoscenza delle tecniche di manipolazione genetica di cui disponiamo oggidì, già gli antichi romani – maestri persino nella cinofilia – distinguevano i cani in base alle loro funzioni; troviamo, infatti, il canis pastoralis, da cui il nostro maremmano abruzzese, il pugnax, progenitore degli odierni molossi, il venaticum, da cui la composita famiglia dei cani da caccia.
La ratio è che, a seconda del lavoro che una determinata razza deve compiere, si vanno a inibire o ad esaltare caratteristiche genetiche presenti nell’etogramma del lupo.
Vi siete mai chiesti per quale motivo, ad esempio, le cronache delle aggressioni vedono alquanto raramente protagonisti un Labrador o un Golden retriever? Essendo stati selezionati per il riporto della preda, è stato necessario inibire a queste razze la parte della sequenza predatoria che prevede il morso. Avete l’idea del lavoro necessario per arrivare a questi risultati? Per fare in modo che un predatore, addomesticato quanto si vuole, ma pur sempre un discendente del lupo, tenga in bocca un fagiano o una lepre e non vi affondi i denti, non lo difenda come proprio bottino, ma lo ceda, integro, al proprio conduttore?
All’estremo opposto, troviamo i cani da difesa delle persone e delle proprietà, tra cui sono annoverati i molossi. Come accennato sopra, i loro progenitori erano già utilizzati nella Roma classica, previa accurata selezione e duro addestramento: morfologicamente massicci, dall’importante massa muscolare, dotati di un’elevatissima soglia di sopportazione del dolore e da spiccata aggressività verso i propri conspecifici, venivano lanciati a tutta velocità, muniti di collare con lame acuminate rivolte all’esterno, in mezzo alle schiere nemiche, affinché tranciassero più garretti possibili a cavalli e umani. Sebbene non sia classificato come molosso, ma come terrier di tipo bull, includerei in questa famiglia anche il famigerato Pitbull, progettato per combattere nelle arene contro i tori. Con i molossi ha in comune parecchie caratteristiche, tra cui una reattività fulminea e, come si suole dire, “l’andare in presa”, ovvero l’essere dotato di un morso che non lascia, penetra nella carne e affonda inesorabilmente, finché la preda non è morta.
Ora voi, per i quali, molto probabilmente l’origine genetica di un determinato tipo di cane non costituisce chissà quale interesse, vi chiederete: perché tutto questo discorso?.
Semplicemente perché queste informazioni sono la conditio sine qua non è impossibile porre i termini della questione in modo corretto. Se non teniamo conto della genetica che scorre nelle vene di un cane, non possiamo capire correttamente le premesse né, quindi, trarre conclusioni veritiere.
Dunque, buona parte delle cause che rendono ragione delle già citate decine di migliaia di aggressioni si può ravvisare nella mancata serietà con cui l’aspetto delle origini viene affrontato o molto più spesso, ahinoi, bellamente ignorato, quando non addirittura ricercato. Poiché è ovvio che se io non mi curo o, peggio ancora, mi ritengo così capace da gestire una macchina da guerra vivente, magari perché con me è docile e remissiva, allora facciamoci il segno della croce, sperando di non incontrare qualche fenomeno che sguinzaglia il suo concentrato di muscoli e mascelle dalla nevrilità del tritolo proprio mentre siamo a fare una rilassante passeggiata con il nostro canetto da compagnia.
Scendiamo, ora, a un livello di analisi più profondo, che inizia a virare verso il cuore della questione, e ci ritroveremo in una voragine di solitudine, senso di inadeguatezza, confusione, disgregazione.
Infatti, ogniqualvolta mi trovo di fronte a molossi o pit rinunciati dai proprietari che non li riescono più a gestire e schiaffati in una gabbia a vita, o che affollano i campi di addestramento, la domanda delle domande che mi sorge spontanea è: cosa spinge frotte di famigliole, giovani coppie, ragazzi e ragazze – perché è un fatto che questo tipo di cani spopola soprattutto tra le nuove generazioni- a portarsi a casa, in una delle nostre città, un cane pensato per il combattimento, la guerra, la battaglia? Moda, rispondono in tanti. Sia pure; ma le mode, comunque, rispecchiano il carattere di un humus culturale. E, dunque, cosa rispecchia questa bizzarra moda, al di là delle ovvie ignoranze, leggerezze, facilonerie?
Ancora. Scaviamo sul fondo dell’abisso e allarghiamo lo sguardo alla specie canina nella sua interezza e nel modo in cui viene percepita da noi.
Abbiamo dimostrato che il cane è nato per aiutare l’uomo nelle sue attività. Ma se ciò era lapalissiano dall’alba dei tempi e fino a una manciata di decenni fa, ora, almeno in Occidente, non lo è più.
Il cane, infatti, si è ritrovato ad assumere il ruolo di sostitutivo di elementi fondamentali della nostra defunta identità e struttura sociale: per lo più, oggi, a seconda dei contesti, viene visto e vissuto come un angelo con le ali, un bambino mancato, un fidanzato scappato, un figlio assente, una proiezione di una virilità castrata (e questo è il caso dei tanti molossi e pit) o del bisogno di autoaffermazione. Il disordine esistenziale, la perdita di riferimenti valoriali chiari e condivisi, la desolante solitudine cui fa il paio un esasperato individualismo, un’antropologia basata sulla percezione soggettiva anziché sulla realtà oggettiva, ha trascinato non solo noi, ma anche i nostri più antichi amici in un’alienazione collettiva, i cui effetti pesano su entrambi.
Come in ogni ideologia che si rispetti, poi, anche in questo settore ci sono i luminari che si prodigano a diffondere il verbo tra i poveri comuni mortali ignoranti e legati, magari, a una concezione arcaica del quattro zampe (e lucrando, en passant, un bel mucchio di soldi).
La filosofia a cui si fa riferimento, pur con accenti e vesti differenti, si può ricondurre sotto il cappello dell’antispecismo. Esso vuole che gli esseri siano in una relazione orizzontale tra loro, senza differenze qualitative, per cui l’uomo è visto come animale umano, in una vera e propria reductio ad bestias dell’essere umano, animale innegabilmente particolarmente evoluto, ma ontologicamente uguale a tutti gli altri. Siete persuasi, sulla scorta del Sommo poeta, e dunque di san Tommaso, che “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute et canoscenza”, in quanto elementi che ci distinguono dagli altri animali, irriducibili, partecipi di una dimensione che origina nello spirito, impronta divina intrinseca? Ebbene, sappiate che siete dei retrivi antropocentrici. Non è ammessa nessuna superiorità o gerarchia ontologica, ma tutto è spiegabilissimo in meri aspetti evolutivi. Essendo noi homines sapientes, privi di caratteristiche fisiche atte a offendere o difendere (siamo glabri, non abbiamo zanne, artigli, particolare possanza muscolare, velocità eccessiva et similia), però dotati del pollice opponibile, abbiamo sviluppato un’intelligenza pratica, che ci ha conferito una superiorità puramente strumentale, tecnologica. Il che, quindi, non dimostra alcuna superiorità qualitativa, perché le intelligenze sono di tanti tipi e, se guardiamo a quella che sottende alle strategie di sopravvivenza, la capacità mimetica del camaleonte, ad esempio, è ben più sviluppata della nostra. Il pensiero astratto, il linguaggio, la dimensione etica ed estetica e l’autocoscienza – i cui indizi si cercano direi disperatamente di ravvisare anche negli animali -, sono spiegati con la medesima logica: puro adattamento.
Dunque, vi è uno scambio, in termini di apprendimento, di capacità e competenze adeguate allo stare al mondo, sostanzialmente equivalente.
Da qui discende l’immoralità non dico di uccidere un animale per nutrirsene, ma anche solo di pensare a un animale in termini di utilizzo, nel momento in cui questo comporti una sua costrizione, una manipolazione genetica da parte dell’uomo e, per quanto riguarda l’animale in esame in questo scritto, un addestramento.
L’antispecismo è un insulto alla realtà, per chi ha occhi ancora in grado di vedere, eppure è la dottrina che ha permeato non solo molti degli ambienti cinofili, ma anche la percezione comune. Ed è fondamentalmente anticristica. E così siamo finalmente giunti a toccare il cuore del problema. Perché si arriva, gira e rigira, sempre, immancabilmente, lì: chi non è con me è contro di me, e tertium non datur.
Personalmente non finirò mai di ringraziare il Buon Dio per averci dato la facoltà di inventare il cane, il cui principale lavoro, oggidì e nelle nostre città, nelle quali viviamo come monadi schizoidi, parcellizzate e imbozzolate, è proprio quello di donarci un po’ di calore nel gelo delle tante nostre solitudini. Sono consapevole del conforto e della serenità che la presenza di un cane può portare nella vita di una persona, perché davvero in certi frangenti può fare la differenza tra l’inedia e la forza di alzarsi dal letto, lavarsi, mangiare, uscire, dover aprire bocca con un proprio consimile. Ma le cose devono essere chiamate con il loro nome. Dobbiamo, in una parola, tornare all’ordine. Ricordare che siamo il seme di Adamo, che aveva ricevuto dal Creatore la facoltà di nominare gli animali, dove dare un nome significa sottomettere, soggiogare, ratificare una gerarchia qualitativa e ontologica innegabile, pur senza reificare ciò che vive e ricordando che siamo i custodi di cui dovremo rispondere, non i padroni assoluti. E in quest’ordine, e solo in questo, sta il vero rispetto non soltanto per noi stessi, ma anche per i cani, in quanto l’unico modo che abbiamo per onorare l’antico patto con loro è quello di restare fedeli ai suoi termini: tu, quadrupede, sarai docile con me e ti presterai a svolgere quanto ti chiedo, e io, bipede, ti fornirò cibo, riparo e cure, e sarò per te guida sicura e coerente, in grado di gestirti nei tuoi impulsi e di regolare i tuoi istinti e tu vivrai sereno e appagato nei tuoi bisogni sociali.
Vorrei concludere queste mie riflessioni sparse con il monito del dottor Konrad Lorenz, il fondatore dell’etologia e premio Nobel nel 1973, il quale, pur essendo di formazione squisitamente positivista e mai menzionando la causa di Dio nei suoi studi, aveva bene in mente quell’ordine che deve regnare tra i viventi, e di cui oggi, in primis tra i suoi eredi, si sono scelleratamente perse le tracce.
“Mi rattrista sempre sentire quella frase malvagia e totalmente falsa ‘le bestie sono migliori degli uomini’. Non lo sono affatto! Certo, la fedeltà di un cane non trova facilmente l’equivalente tra le qualità sociali dell’uomo. In compenso, però, il cane non conosce quel labirinto di obblighi morali, spesso in contrasto tra loro, che è proprio dell’uomo; non conosce, o soltanto in misura minima, il conflitto tra inclinazione e dovere, insomma, tutto ciò che in noi poveri uomini crea la colpa… È pur vero che ancora oggi nell’uomo c’è tutto l’animale, ma non certo tutto l’uomo è nell’animale. Purtroppo, una schiera terribilmente numerosa di amici degli animali, ma soprattutto di coloro che li proteggono, insiste su questo punto di vista eticamente pericoloso. Invece, l’amore per gli animali è bello e nobilitante soltanto quando nasce dal più vasto e generico amore per tutto il mondo vivente, il cui nucleo centrale e più importante deve rimanere l’amore per gli uomini” (brano tratto dal libro E l’uomo incontrò il cane).
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Immagine: Rebecca Puig, Man With Dog