Lettera aperta al vescovo: “Per favore, non si nasconda. E sia portatore della speranza cristiana”

di Fabio Nones

Eccellenza monsignor Ivan Maffeis, arcivescovo di Perugia,

pur essendo stato suo compagno di seminario non riesco, adesso che è arcivescovo, a darle del tu e a chiamarla semplicemente don Ivan. Vedo in lei il pastore e non più don Ivan. Magari questo le dispiacerà, considerato che tiene a essere alla mano e a mostrarsi vicino al popolo, anche girando in motorino e non facendosi subito riconoscere come vescovo.

Da un articolo di giornale apprendo che si è presentato semplicemente come don Ivan anche a casa di Laura Santi, atea, sbattezzata, membro dirigente dell’associazione Luca Coscioni e appassionata del cantautore De André. Affetta da una forma progressiva di sclerosi multipla, la signora Laura ha chiesto di poter completare le procedure per accedere eventualmente al suicidio assistito. E lei, signor vescovo, non ha rivelato il suo ruolo: “Solo dopo la sua partenza – ha riferito Laura Santi – mi hanno detto che era il vescovo”.

Nel corso dell’incontro avete parlato – ha riferito la signora – della sua vita, delle sue sofferenze, delle sue battaglie per l’eutanasia. E lei, eccellenza, ha soprattutto ascoltato senza giudicare. Non ha fatto riferimenti alla Chiesa, al Vaticano, a Dio. “Chi sta fuori da queste sofferenze – ha detto alla signora Laura – deve inchinarsi a voi. Noi non dobbiamo mettere bocca su cosa fate, su come vivete, come non vivete. Io non posso stare dentro i vostri vestiti o dentro le vostre scarpe. Io non posso nemmeno immaginare quello che prova lei’.

Circa il vescovo, Laura Santi ha detto di avere avuto “l’impressione di un uomo libero, molto umile e profondo. Non è venuto come uomo di Chiesa. Non ha cercato di convincermi o di dissuadermi dal fare qualche cosa. Mi ha abbracciata, mi ha passato la borraccia, si è seduto e mi ha ascoltata”.

Tutto bene, tutto bello. Eppure sento che c’è qualcosa che non va. Intendiamoci, non voglio dire che il suo modo di fare, signor vescovo, sia stato inadeguato. Anzi, io che la conosco so che lei è una persona delicata, che entra in punta di piedi laddove il dolore segna la vita di un essere umano. Ma, mi perdoni, non posso fare a meno di chiedermi: è tutto qui quello che è chiamato a fare un pastore della Chiesa cattolica? Nell’articolo non si accenna ad altro. Si dice solo che forse ci sarà un’altra chiacchierata.

Mi ha colpito particolarmente la sua espressione “in ginocchio davanti al dolore”. Io credo che questo atteggiamento, pur profondamente umano, non sia sufficiente da parte del vescovo. Nel profondo del cuore anche la persona più lontana dalla fede desidera inconsciamente ricevere una parola di speranza che porti a dare un senso alla vita e al dolore. In ognuno di noi c’è la nostalgia di una primordiale innocenza, come una cattedrale sommersa, in cui ogni tanto il nostro angelo custode suona una campana. Ricordo la notte dell’Innominato nei Promessi sposi, il momento in cui il poveretto alza e abbassa nervosamente il cane della pistola puntata alla tempia. A un certo punto arriva l’alba che porta con sé il suono di una campana, e il ricordo delle parole di Lucia: “Dio perdona molto per un atto di carità”, e dentro di lui cambia qualcosa.

Anche in De André si avverte a volte un anelito, una nostalgia dell’Eterno. Dall’articolo sul suo incontro con la signora Laura si percepisce, invece, che lei si è comportato come una persona qualsiasi, e se ne è pure compiaciuto. Nessuna parola è da lei arrivata sulla fede e sulla speranza cristiana. Quasi ci sia un certo imbarazzo, una sorta di vergogna a portare, pur con delicatezza e rispetto, la straordinaria potenza di Gesù crocifisso e risorto a un’anima che non riesce più a trovare un senso per la propria vita.

Noi che crediamo in Cristo Gesù abbiamo un grande tesoro, che riempie la vita di senso, di gioia e di bellezza, anche nel dolore: perché dobbiamo nasconderlo? Perché la paura di apparire inopportuni deve prevalere sulla testimonianza? Sarebbe come se il medico andasse al capezzale di un malato e, pur avendo con sé la medicina, invece di curarlo piangesse assieme a lui e tutti, commossi, pensassero: “Che bravo medico, com’è empatico!”.

La prego, signor vescovo, non mi fraintenda. Non sto dicendo di rinunciare all’empatia, alla delicatezza di cogliere il momento e il modo giusto. Mi permetto solo di incoraggiarla a nutrire il desiderio e la passione di cercare ogni mezzo per salvare le anime, soprattutto se si trovano sull’orlo del non senso.

Signor vescovo, non sia come quei pastori che si fanno solo compagni di viaggio, senza indicare una méta, senza dare alle persone assetate di verità la vera medicina che è Gesù Cristo. Non sappiamo cosa farne di pastori così. Alla fine della nostra vita non sarà un De André a salvarci.

Mi perdoni la franchezza.

Con ossequio e immutata stima

Fabio Nones

 

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