Santi e animali / San Martino de Porres. 2

Del molosso divenuto mansueto e di come tre specie in natura ostili si fanno concordi

di Michela Di Mieri

Abbiamo già raccontato [qui] di come fra Martino accogliesse ogni uomo si presentasse nella sua infermeria attigua al convento domenicano di Santa Maria del Rosario di Lima. Dai bambini agli anziani, frati suoi confratelli, numerosi poveri e diseredati, indigeni ancora pagani e signori spagnoli, nobili e funzionari della corona della madrepatria, tutti desideravano farsi assistere dal converso mulatto che, ove necessario, mentre si occupava della cura del corpo, istruiva sulla vera Fede, essendo dotato della Scienza dei santi. Capitava, però, e non di rado, che facessero capolino anche animali feriti, anziani o malati, randagi o abbandonati, che pullulavano per le strade della città peruviana. E il frate con la scopa, che nessuna creatura cacciava, si occupava anche di loro, riuscendo, per Grazia divina, ad ammansirli e a infondere il lume della ragione là dove domina l’istinto.

Era un giorno come tanti all’infermeria di frate Martino della carità, dove, incontrastato, regnava un disordine che, per effetto della grande dedizione con cui egli si dedicava al suo ufficio, riusciva quasi a tramutarsi in un ordine tale da non lasciare indietro nessuno.
Il solito affollarsi di malati e feriti in fila sulla soglia, i lamenti e i sospiri dei degenti nei pagliericci nella sala attigua venivano immersi nei sapori e negli odori penetranti di decotti e impiastri, di erbe macerate e distillate, mescolati a quello, buono e lieve, della biancheria fresca di bucato.

Martino stava cambiando delle fasciature ad un frate allettato, quando sentì un gran trambusto venire dal locale dell’infermeria: grida e risate insieme, ma, soprattutto, rumori di oggetti di vetro che si sfracellavano al suolo. Con gli occhi della mente, vide le sue preziose ampolle, piene di unguenti medicamentosi, che rovinavano a terra e, alzatosi, corse a vedere cosa stessa capitando.

Ed ecco, davanti a lui, un grosso molosso tigrato, tutto sanguinante, che stava correndo senza una meta tra le gambe della gente e dei tavoli, rovesciando tutto quanto incontrava nel suo disperato tentativo di placare un dolore che stava facendolo impazzire. Nessuno tra gli aiutanti di Martino aveva il coraggio di prendere una scopa e cacciare l’animale fuori, per la paura che si rivoltasse. “Frate Martino – dicevano attorno a lui – questo cane è pericoloso, noi lo conosciamo bene. Gironzola attorno al convento, cercando da mangiare tra i rifiuti ed è molto aggressivo: tenta di mordere chiunque per sbaglio gli si avvicini”.

Il buon frate doveva assolutamente riuscire a calmare quella furia a quattro zampe, se voleva salvare il salvabile della sua povera infermeria.
Si fece il segno della Santa Croce poi, raccolto tutto il suo coraggio, gli si parò davanti, parlandogli con il consueto modo gentile che usava con gli animali. “Fratello cane, se non ti calmi, io non posso aiutarti”. Il molosso, invece di saltargli addosso, si bloccò all’istante, ansante, tremante in tutto il corpo e con gli occhi strabuzzati, come in attesa che quel piccolo uomo dalla pelle marrone gli levasse l’insopportabile dolore che lo stava torturando. Martino, allora, si avvicinò lentamente, ed osservò lo squarcio enorme che correva lungo tutto il costato della povera bestia, dalla quale quasi uscivano gli intestini. Sembrava una ferita procurata da un’arma da taglio, una spada o un coltello, sicuramente inferta mentre l’animale tentava di placare i morsi della fame. Si fece portare una lettiga e poi disse al cane: “Adesso sali e sdraiati qui sopra. Non avere paura, ti porterò nella mia casa e presto non sentirai più dolore; però devi fare tutto quello che ti dico”. Il grosso molosso, tra lo stupore degli astanti, obbedì docilmente a Martino, che, condottolo nella sua cella all’interno nel convento e adagiatolo su un giaciglio improvvisato, gli somministrò un decotto per stordirlo, gli rimise a posto gli intestini e gli medicò la ferita. Mentre ancora il cane era in stato di semi incoscienza, gli raccomandò: “Adesso io devo tornare in infermeria; tu sta’ qui buono, fermo soprattutto, non tentare di alzarti: se lo farai, gli intestini usciranno, si infetteranno e tu morirai. Aspettami questa sera, ti porterò da mangiare”.
Al suo ritorno, trovò il cane immobile come lo aveva lasciato, ma ben sveglio, che lo accolse con un ringhio minaccioso, perché Martino portava con sé  del pane con una fetta di lardo. “Questo cibo è per te, Tigro, –

così aveva infatti deciso di chiamarlo, per via del suo mantello – te l’ho portato appositamente: non hai motivo di difenderlo”. Il molosso appoggiò il testone sul giaciglio e si lasciò imboccare. Poi, finito il pasto, leccò le mani del frate, muovendo debolmente la coda, e chiuse gli occhi in un sonno profondo e ristoratore.
E Martino seppe che, da quel preciso istante, si erano addomesticati e, dunque, non si sarebbero più allontanati l’uno dall’altro.

Man mano che Tigro guariva e recuperava le forze, dimostrava un’affezione sempre più intensa verso Martino. Passava le giornate tranquillo nella sua cella ad aspettarlo e, quando a sera, il frate rientrava, le esplosioni di entusiasmo si facevano sempre più energiche.

E arrivò anche il giorno in cui guarì completamente e non fu più possibile lasciarlo chiuso nella celletta; ciò si rivelò molto presto un problema, perché, se Tigro era diventato un mansueto agnellino con il suo amato uomo dalla pelle marrone, non altrettanto lo era con il resto del genere umano, per il quale nutriva la diffidenza di sempre. I frati erano terrorizzati dalla presenza del molosso, che saltava fuori all’improvviso, mentre camminavano per il corridoio, e che, con il suo ringhio sordo, li bloccava in un angolo. Allora, bisognava andare a chiamare Martino dall’infermeria, perché sbloccasse la situazione, mentre, nel frattempo, il povero malcapitato espiava in una manciata di interminabili minuti i peccati di tutta una vita.

Perciò, come da oramai consolidata consuetudine canzonata dal convento intero, Martino fu convocato dal priore, il quale gli intimò di sbarazzarsi prima di subito di quel cagnaccio che seminava il panico in convento. Insomma, quello era un luogo di preghiera, di pace e spiritualità, dove credeva mai di essere? Come gli era venuto in mente di portare quell’animale in mezzo ai frati? E che non pensasse di metterlo in infermeria, dove i malati avevano bisogno di tutto tranne che di una bestiaccia che gli tirasse via le lenzuola da sotto i piedi.

Martino, che aveva ascoltato la rampogna del superiore a capo chino, non provò neppure a ribattere, si scusò profusamente e assicurò assoluta e immantinente obbedienza.
Rimasto solo, il priore scosse la testa sbuffando rumorosamente. Per quanto quel converso mulatto, con le sue eccentriche attenzioni verso tutte le bestie che vagavano per le strade di Lima, lo facesse uscire dai gangheri, davanti alla sua umiltà e carità la rabbia puntualmente si trasformava in un rimprovero dal sapore dell’impotenza: non solo non sapeva come poterlo aiutare, inoltre il suo ruolo gli imponeva la severità del mantenimento dell’ordine, ma in cuor suo pativa con lui e con le sue stranezze. E Martino, che tutto questo lo capiva bene, puntualmente, dopo ogni lavata di testa, si ritirava in preghiera per chiedere aiuto a Chi, al contrario di noi umani, tutto può. Dove avrebbe mai trovato il coraggio di mandare via Tigro? Lui non si sarebbe più allontanato dal convento, sarebbe rimasto a girovagare nei pressi e, prima o dopo, qualcuno avrebbe portato a termine il lavoro che non era riuscito con la lama che glia aveva aperto il costato.
Rimuginando e sospirando, prima di recarsi nell’infermeria, volle passare nello scantinato, dove teneva la dispensa delle provviste, dei medicinali e della biancheria. Mentre rovistava in una cesta, sobbalzò all’accorgersi di un’ombra proveniente dall’angolo più nascosto della cantina. Si girò di scatto e, su una vecchia coperta logora, che lo guardava fisso e intenso, inamovibile e statuario nella postura, c’era Tigro! Contro ogni ragionevole spiegazione sulla capacità dell’animale di comprendere il problema che lo vedeva protagonista, quello gli stava risolutamente dicendo che gli stava mostrando la soluzione: lui avrebbe vissuto lì, come guardiano della dispensa che aveva già subito tanti furti, e che da quel momento in poi non avrebbe più corso pericoli. Martino andò subito a riferire al priore, il quale, non chiedendo di meglio che un qualche intervento dall’alto risolvesse la faccenda, acconsentì seduta stante e diede il benvenuto ufficiale al nuovo guardiano della dispensa dell’infermeria.

I giorni trascorrevano dunque tranquilli e tutti i frati erano soddisfatti della novità: da quando era stato assunto l’integerrimo Tigro, dalla dispensa non era sparito neppure uno straccio o un grano di polvere di farina.
Un mattino, però, mentre Martino era come suo solito immerso tra bende e misture, dalla cantina si levò un fulmineo putiferio. Preoccupati per la sorte di quello che tutti credevano un ladro introdottosi incautamente nella dispensa, Martino e i suoi aiutanti accorsero. Ma fu tutt’altra scena quella che si presentò ai loro occhi: Tigro, con il muso tutto graffiato, ringhiava con la sacra ira dello sdegno di un re spodestato all’indirizzo di un’alta botte, sulla quale una gattina, i cui peli irti la rendevano tre volte almeno più voluminosa della sua corporatura, soffiava come un leone ora verso il molosso, ora verso un minuscolo buco nel muro, da cui provenivano alti squittii e rumore di leggere zampette veloci e concitate.
Tutt’intorno, lo sconfortante spettacolo di un campo di battaglia alla fine del combattimento, tra ceste di biancheria prima immacolata rovesciate con tutto il loro contenuto per terra e ampolle irrimediabilmente rotte, con i loro preziosi liquidi a fare da impasto a semi di cereali sparpagliati in ogni dove.
La micia, una giovane gattina randagia, magra magra e dal pelo arruffato grigio e bianco, era una vecchia conoscenza della cantina: mesi prima vi si era intrufolata, probabilmente passando da un vetro rotto della finestra che dava sulla strada, e Martino se l’era trovata un mattino tutta raggomitolata dentro ad una cesta piena di bende, visibilmente in procinto di partorire. Lei lo aveva guardato con i suoi spalancati occhi gialli, che sembravano implorare di non cacciarla fuori. Lui, ovviamente, non solo non l’aveva allontanata, ma l’aveva aiutata a partorire e nutrita adeguatamente, portandole del latte ogni giorno; infine, era riuscito a convincere uno sconcertato priore che i gattini sarebbero stati sommamente utili al convento, all’interno del quale, nascosti in ogni pertugio, viveva una nutritissima colonia di topi. I micini, una volta fattisi grandi, erano dunque stati adibiti alla disinfestazione delle varie zone del grande edificio, mentre la mamma, affezionata al buon Martino, era rimasta nella cantina dell’infermeria, nella cesta che ormai era diventata la sua casa. Ed, evidentemente, quel topo che squittiva spaventato dentro al muro, era riuscito a sfuggire all’affilata unghia felina fino a quel giorno, lasciando tutti ignari della sua nascosta presenza.
Insomma, la micina e Tigro si erano già visti nei giorni precedenti e, sebbene le nature delle loro specie non si fossero mai proclamate grandi amiche, avevano convissuto in una sostanziale tregua armata, fatta di rispettosa e guardinga indifferenza. Cosa mai, dunque, aveva potuto scatenare gli istinti fino a quel momento sotto controllo della Grazia che agiva per tramite del buon Martino? Egli, guardandosi intorno con costernazione, cercando di capire come poter recuperare il recuperabile, vide un piatto, accanto alla coperta logora di Tigro, con dentro un pezzo di formaggio; allora ricordò e comprese. La sera precedente, causa la stanchezza che lo gravava a fine giornata, si era dimenticato di togliere il piatto con il cibo rimanente, ed evidentemente, durante la notte, gli animali avevano a loro modo preso le misure per chi avesse avuto il diritto di impossessarsi dell’ambita preda e, ritenendosi ognuno il prescelto, ecco che era scattato il parapiglia.

Martino, uomo della carità, ma anche di risolute decisioni, non poteva certo permettere che, davanti a una sua probabile dimenticanza, si volatilizzassero le risorse della dispensa. E, come suo solito, si rivolse mentalmente al Buon Dio, padre di tutte le creature, anche di quelle che stavano in quel momento davanti a lui in tutta la loro naturale indole: Gli chiese di infondere a lui, ultimo fra gli ultimi suoi servi, ancora una volta, il dono di riuscire a farsi da quelle comprendere ed ubbidire, di piegare la ferinità della natura con la luce della Grazia.
Quindi, “Adesso basta, smettetela”, disse fermo. Di colpo, gli istinti si placarono: Tigro smise di ringhiare, il pelo della micina tornò ad obbedire alle leggi della fisica, dal muro non proveniva più alcun rumore. “Guardate che disastro avete combinato per un pezzetto di formaggio! Sapete quanto lavoro, quanta fatica degli uomini c’è dietro a questo locale? E voi avete distrutto tutto questo in pochi minuti. Capite bene che questo non dovrà mai più capitare! Orsù, dunque, adesso venite tutti qui”. Prese il piatto con il formaggio, vi versò dentro del latte e lo appoggiò al centro della stanza. “Voglio che vi mettiate tutti e tre uno di fianco all’altro a mangiare”. Mansuete e placate, le tre bestie si avvicinarono al piatto, compreso il roditore, che si rivelò essere un topolino marroncino, di quelli che si trovano nei campi; inizialmente titubante, dopo aver dato un’occhiata di sfuggita al frate, che gli apparve come un giudice a cui nulla poteva sfuggire, prese coraggio e si avvicinò al piatto in cui galleggiava l’oggetto dei suoi desideri. E allora, eccoli tutti e tre, il topino, il molosso e la micina, mangiare insieme dallo stesso piatto. “Così va bene – disse loro Martino con tono più dolce -. Ecco, ora voi farete così ogni giorno, fino alla fine del vostro tempo”. E tutti e tre, dopo averlo guardato come a confermargli l’approvazione, se ne tornarono ognuno alle attività che l’istinto ordinava loro come ineludibile necessità: Tigro a vegliare su quanto rimaneva di integro dal disastro, la micia a scovare topolini o lucertole, e il topino, a scavare gallerie nascoste dietro ai muri, in perfetta equanimità.
E così, sotto lo sguardo di Martino della carità, vissero in pace i loro giorni, senza mai venir meno a quell’ordine a cui la Grazia aveva elevato la loro natura.

 

 

 

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