Sulla rinuncia di Benedetto XVI. Contributo alla riflessione dopo un saggio dei canonisti Boni e Ganarin

Cari amici di Duc in altum, ricevo e propongo questo contributo dell’avvocato Patruno, che ringrazio.

Le tesi qui contenute non necessariamente coincidono con le posizioni del titolare del blog.

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di Francesco Patruno*

Un recente contributo di Luisella Scrosati, apparso il 31 ottobre su La Nuova Bussola Quotidiana, è dedicato alla rinuncia di papa Benedetto XVI (qui), tema che, a oltre un decennio dal suo accadimento, continua a far discutere. E credo continuerà ancora a far dibattere negli anni a seguire. Del resto, è noto alla canonistica che se una rinuncia è dubbia, come notava un canonista e gesuita della seconda metà del Seicento, padre Francisco Leytam, in un’opera a difesa del papato (Impenetrabilis Pontificiae Dignitatis Clypeus, Romae, 1695, Disceptatio VIII, Sectio VI, § 59, p. 314), «consequenter secunda electio dubia erit, et secundo electus Papa erit dubius, eruntque duo Papae dubii, aliique primo adhaerebunt, alii vero secundum cum schismate Ecclesiae sequentur» («conseguentemente, anche la seconda elezione sarà dubbia, e il Papa eletto per secondo sarà dubbio; e ci saranno così due Papi dubbi, alcuni aderiranno al primo, mentre altri seguiranno il secondo, con uno scisma nella Chiesa»). Esattamente quel che oggi stiamo vivendo.

La Scrosati, in particolare, nel suo articolo, presenta un saggio di due canonisti, i professori Geraldina Boni e Manuel Ganarin (qui), nel quale i docenti esaminano gli argomenti addotti dal teologo carmelitano padre Giorgio Maria Faré, che domenica 13 ottobre scorso ha dettato una lunga omelia nel corso della quale ha esposto le ragioni per le quali, a suo dire, la rinuncia di Benedetto XVI sarebbe invalida, anzi addirittura inesistente, e Francesco sarebbe, quindi, antipapa.

Non è mia intenzione entrare nella polemica e proporre puntuali riflessioni sullo scritto dei due illustri canonisti. Mi limiterò solo a considerare due punti che mi hanno particolarmente colpito.

Tralasciando le questioni circa il munus/ministerium/officium su cui non posso che condividere le osservazioni dei due docenti, nondimeno mi sembra che uno dei punti deboli della loro confutazione delle tesi del padre Farè sia da riferirsi al tema della rinuncia quale actus legitimus o atto giuridico puro. Si legge nel testo dei due canonisti: «Egli [il padreFaré] ritiene che ciò non sarebbe possibile dinanzi a un «“atto giuridico puro” […] che, per la [sua] importanza e per evitare possibili incertezze e ambiguità, non [ammette] la presenza di elementi accidentali, che sono solitamente la condizione e il termine», altrimenti l’atto medesimo sarebbe anche in questo caso «inesistente» (p. 5). Premesso che appare difficile se non impossibile, stando ai principi della teoria generale del diritto, che la presenza di un elemento accidentale possa di per sé determinare l’inesistenza di un atto giuridico, travolgendone così gli elementi essenziali, non si tiene conto ancora una volta dell’inapplicabilità di alcune disposizioni codiciali agli atti del papa, derivante da un’interpretazione del dettato normativo conforme allo ius divinum. Solo attraverso un’indagine approssimativa, infatti, si può desumere dal testo del can. 189 § 3 CIC che la rinuncia dovrebbe produrre un «effetto immediato», non essendo «prevista una possibilità di differimento» (p. 5). Ma ciò che non è riportato esplicitamente nella legge canonica non significa che sia implicitamente proibito: l’efficacia, al contrario, poteva legittimamente essere differita nel tempo, dato che la rinuncia è un atto di governo con il quale si determina la sola cessazione della titolarità dell’ufficio apicale di giurisdizione nella Chiesa, non rilevando in alcun modo l’investitura divina della carica e fermo restando che il papato non rappresenta il quarto grado del sacramento dell’ordine» (p. 3).

Per la verità, sulla questione dell’apposizione del termine, la stessa professoressa Boni ha più volte inteso soffermarvisi. Ricordo solo che la stessa è stata promotrice, negli scorsi anni, di una proposta di legge canonica avente l’intento di colmare una lacuna dell’ordinamento della Chiesa, qualora la Sede Apostolica fosse impedita sia temporaneamente sia qualora l’impedimento fosse permanente ed irreversibile (qui). La professoressa Boni auspicava, ancora, nel caso di rinuncia, una regolamentazione dell’efficacia temporale della stessa, lasciando la possibilità di un differimento degli effetti; dello status del papa rinunciatario (titolo spettante, mantenimento o no della dignità cardinalizia, prerogative, funzioni, partecipazione ad eventuali successivi conclavi o concili ecumenici, abbigliamento, abitazione, ecc.) ed, infine, onde evitare le confusioni e le incertezze tra munus e ministerium, suggeriva l’inserimento di una presunzione di legge «in forza della quale si presume […] che la rinuncia all’ufficio di romano pontefice riguardi tutte le potestà, ministeri, incarichi, diritti, privilegi, facoltà, grazie, titoli e insegne, anche solo onorifiche, inerenti all’ufficio stesso».

La proposta della docente bolognese, che aveva pure raccolto contributi di diversi canonisti ed aveva aperto un interessante dibattito dottrinale, tuttavia, era stroncata dallo stesso Francesco, il quale escludeva la possibilità di una regolamentazione dello statuto giuridico del papa resignante nel corso dell’intervista rilasciata al quotidiano spagnolo ABC nel dicembre 2022 (El Papa Francisco: «He firmado ya mi renuncia en caso de impedimento médico», 18 dicembre 2022). Alla domanda, in effetti, se avesse in animo di regolare la materia del papato emerito, Francesco (qui) rispondeva negativamente: «Tengo la sensación de que el Espíritu Santo no tiene ningún interés en que yo me ocupe de estas cosas» (Ho la sensazione che lo Spirito Santo non ha interesse a che mi occupi di queste cose). Sul tema ritornava in occasione delle risposte date agli interrogativi dei suoi confratelli gesuiti nel corso del suo viaggio apostolico in Congo e Sud Sudan: «È vero che io ho scritto le mie dimissioni due mesi dopo l’elezione e ho consegnato questa lettera al cardinale Bertone. Non so dove si trovi questa lettera. L’ho fatto nel caso che io abbia qualche problema di salute che mi impedisca di esercitare il mio ministero e di non essere pienamente cosciente per poter rinunciare. Questo però non vuol affatto dire che i Papi dimissionari debbano diventare, diciamo così, una “moda”, una cosa normale. Benedetto ha avuto il coraggio di farlo perché non se la sentiva di andare avanti a causa della sua salute. Io per il momento non ho in agenda questo. Io credo che il ministero del Papa sia ad vitam. Non vedo la ragione per cui non debba essere così. Pensate che il ministero dei grandi patriarchi è sempre a vita. E la tradizione storica è importante. Se invece stiamo a sentire il “chiacchiericcio”, beh, allora bisognerebbe cambiare Papa ogni sei mesi!» (A. Spadaro, La Chiesa non è una multinazionale della spiritualità. Francesco con i gesuiti del Congo e del Sud Sudan, in Civ. Catt., 2023, I, quad. 4144, p. 322).

Tornando all’argomentazione dei due canonisti, bisogna dire che essa è assai interessante. Peraltro non è nuova, visto che è stata sostenuta da diversi autori in anni recenti.

Tuttavia, tale argomento non coglie nel segno laddove non considera la dimensione sacrale dell’ufficio petrino, che lo distingue dagli altri uffici ecclesiastici. In altre parole, si ignora che il papato, a differenza di qualsiasi altro ufficio all’interno della Chiesa, si atteggia in maniera particolare, poiché richiede la collaborazione di due soggetti, di cui uno – che è quello vieppiù ignorato – sono solito chiamare “il convitato di pietra”. Chi sarebbe questo convitato? Il Signore Gesù, ovverosia il soggetto che in tutte queste ricostruzioni viene sistematicamente omesso. Perché c’entra il Cristo? Ed in che misura?

Parlando del papato, non possiamo non partire da una constatazione e cioè che Dio, o meglio il Cristo, sia causa efficiente dei sacramenti così come del rendere un soggetto pontefice. Come insegna il Caietano (o Gaetano), nel suo opuscoletto, scritto nell’autunno del 1511 in appena un paio di mesi, De comparatione auctoritatis Papæ et Concilii, quando si tratta di dimissioni papali (come anche nel caso dell’accettazione), l’atto di chi si dimette (o di chi accetta l’elezione) non sarebbe una causa efficiente, neppure parzialmente, ma solo una causa dispositiva (così T. de Vio (card. Gaetano), De comparatione auctoritatis Papæ et Concilii cum apologia eiusdem tractatus, cap. XXI, nn. 305-306, in J.V.M. Pollet (a cura di), Scripta theologica, I, Roma 1936, pp. 135-136), esattamente come afferma la Lettera agli Ebrei: «Nec quisquam sumit sibi illum honorem, sed qui vocatur a Deo tamquam et Aaron» (Eb. V, 4: «Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne»). In altre parole, chi si dimette si disporrebbe a perdere l’ufficio papale (presentando le sue dimissioni), mentre il Signore Gesù stesso sarebbe colui che provocherebbe la separazione dell’uomo dall’ufficio. È il Signore la causa efficiente, non l’atto in sé.

In altre parole, come nell’accettazione del Supremo ufficio l’eletto si disporrebbe a ricevere dal Cristo la potestà universale, piena ed immediata su tutta la Chiesa, analogamente con la rinuncia il papa si disporrebbe a che il Cristo ritiri da lui questa potestà. Ed il conferimento, come anche il ritiro, avvengono immediatamente appena compiuti i relativi atti (di accettazione o di rinuncia), non essendoci alcuna soluzione di continuità né possibilità di rinvio degli effetti ad un evento futuro ed incerto (condizioni) o ad un tempo seguente o finale (termine). Analogamente a quanto avviene – secondo una bella immagine cara all’antica canonistica – nella consacrazione eucaristica: «un Papa, finché dura in lui l’assenso e la fede, è sempre Papa; come egli rinunzia, o diventa eretico, ipso facto cessa di esser Papa; in quella maniera che nel Sacramento vi è il Corpo di Gesù Cristo finché durano le specie del pane; ma perite le specie, cessa tosto ancora di esservi il Corpo dello stesso Cristo» (A. Montanari, Dizionario istruttivo per la vita civile, t. I, lett. A, B e C, Verona, 1776, p. 370, nt. 55).

Se, dunque, l’effetto è immediato, è ipso facto, rispetto all’atto compiuto, ne deriva che esso, per sua natura, non possa soffrire l’apposizione di termini o di condizioni o di modi.

E che sia così basterà riflettere sull’assurdità di una accettazione al papato del seguente tenore: “Accetto l’elezione, ma questa avrà efficacia a partire dalle ore 10:00 del tal giorno” così come di una dichiarazione di rinuncia del seguente tenore: “Caro Signore, io sarò papa sino alle ore 20:00 di una certa data X; dalle ore 20:01 di quel giorno, io non sarò più papa e potrai ritirare da me la potestà papale”.

Non occorre essere teologi o canonisti per comprendere la stravaganza di una tale soluzione, giacché – è facile intuire – si sottometterebbe il Signore Gesù di fatto al nostro volere ed alle convenzioni umane (l’ora e la data), trasformandolo in una sorta di segretario o notaio a servizio del capriccio e delle convenzioni dell’uomo: volendo usare le parole del Salmo 2, di queste «se ne ride chi abita i cieli, li schernisce dall’alto il Signore».

Insomma, benché il diritto canonico positivo non proibisca esplicitamente l’apposizione di termini o condizioni all’accettazione come anche alla rinuncia papale (che costituisce l’atto uguale e contrario al primo), è anche vero che la natura stessa dell’atto non permetta che questi elementi accidentali possano venire apposti.

A voler essere pignoli, indizi nell’ambito del diritto canonico positivo li possiamo rilevare. Con riguardo all’accettazione ne abbiamo più in abbondanza.

Il can. 332 § 1 (analogamente al can. 44 C.C.E.O.) precisa: «[…] l’eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell’accettazione. Che se l’eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente ordinato vescovo».

La codificazione canonica, latina ed orientale, dunque, riconducono il conferimento della potestà al momento dell’accettazione.

Il can. 178 aggiunge: «L’eletto, accettata l’elezione, che non necessiti di conferma, ottiene immediatamente l’ufficio con pieno diritto; altrimenti, non acquista se non il diritto alla cosa».

La legge canonica generale, pertanto, lascia chiaramente trasparire come, con l’accettazione, il soggetto designato ottenga immediatamente l’ufficio con pieno diritto.

Incisivo e specifico per il papato è, poi, l’art. 88 della Cost. ap. Universi Dominici Grecis: «Dopo l’accettazione, l’eletto che abbia già ricevuto l’ordinazione episcopale, è immediatamente Vescovo della Chiesa Romana, vero Papa e Capo del Collegio episcopale; lo stesso acquista di fatto la piena e suprema potestà sulla Chiesa universale, e può esercitarla».

Vorrei porre l’accento su quell’avverbio adoperato dal legislatore canonico: «immediatamente». Che significato ha? Vi è spazio per l’apposizione di termini o condizioni? Un’accettazione condizionata o sottoposta a termine conferirebbe validamente l’ufficio?

A mio sommesso avviso no. La categoricità del termine fa pensare che la dichiarazione di accettazione non possa soffrire l’apposizione di elementi accidentali, dal momento che l’effetto si dovrebbe produrre, appunto, «immediatamente» e non potrebbe subire rinvii. Questo chiaro indizio presente nella legislazione canonica conferma che l’accettazione e la rinuncia siano ascrivibili alla categoria degli actus legitimi.

In senso analogo, in effetti, dobbiamo pensare che l’effetto sia altrettanto immediato nel caso della rinuncia, trattandosi di un contrarius actus dell’accettazione. Se l’accettazione conferisce all’uomo designato la potestà immediatamente, analogamente la rinuncia lo priverebbe altrettanto immediatamente di questo carisma. Detto in altre parole, se l’accettazione del papato non può essere condizionata o limitata nel tempo, perché dovrebbe esserlo la rinuncia? La logica del diritto canonico suggerisce che un’eventuale apposizione di un termine nella rinuncia minerebbe la sua natura giuridica e spirituale. Questo legame diretto tra accettazione e rinuncia implica che entrambe le azioni devono rispettare la dimensione divina del papato.

Una conferma è nel § 3 del can. 189, che disciplina, in generale, gli atti di rinuncia all’ufficio ecclesiastico. Secondo la disposizione canonica: la rinuncia, «che non ha bisogno di accettazione sortisce l’effetto con la comunicazione del rinunciante fatta a norma del diritto».

Anche qui, dunque, abbiamo un chiaro indizio circa la natura di atto giuridico puro della rinuncia e che l’effetto sia immediato e conseguente alla comunicazione fatta a norma di diritto.

È significativo, ma la stessa professoressa Boni, in un suo saggio risalente a quasi dieci anni fa, confermava l’inapponibilità degli elementi accidentali all’atto di rinuncia. Nel commentare le parole di commiato di papa Ratzinger all’udienza del 27 febbraio 2013 e l’emeritato papale, scriveva: «non crediamo – non vogliamo credere – che Benedetto XVI, accomiatandosi commosso dal popolo di Dio, abbia voluto in qualche modo stravolgere l’istituzione papale, e abbia adottato un idioma tecnico volto a promuovere una metamorfosi di tale entità nell’ordinamento canonico: un idioma, tra l’altro, come si è appurato, che allo scopo sarebbe stato inappropriato, o comunque ermetico e sibillino, lontano dalla certezza del diritto che un atto così rilevante avrebbe esigito. Sempre che ciò sia ammissibile, e non lo crediamo, avendo la canonistica maggioritaria sempre opinato come non valga una rinuncia del papa sotto condizione, per esempio fatta in favore di un altro o riservandosi alcune competenze» (Due papi a Roma?, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2015, n. 33, p. 69).

Soffermiamoci su quel «non valga una rinuncia del papa sotto condizione, per esempio fatta in favore di un altro o riservandosi alcune competenze».

In effetti, vi sono stati degli autori canonici molto importanti, che hanno ammesso la rinuncia condizionata (anche se non si parla mai di apponibilità di un termine). Tra questi, a quanto mi consta, vi è il servo di Dio padre Felice Maria Cappello, che, in una sua opera, De Curia Romana juxta Reformationem a Pio X sapientissime inductam, parlando della rinuncia papale, afferma: «Per se nihil prohibet quominus resignatio fieri queat etiam conditionate. Etenim ias divinum et naturale id minime vetant. Attamen plura incommoda ex resignatione conditionata facile oriri possent; quapropter bonum Ecclesiae omnino exigit ut Pontifex conditionate nuncium minime mittat papali dignitati» («In sé nulla impedisce che la rinuncia possa avvenire anche sotto condizione. Infatti, né il diritto divino né quello naturale lo vietano minimamente. Tuttavia, dalla rinuncia condizionata potrebbero facilmente derivare diversi inconvenienti; per questo motivo, il bene della Chiesa richiede assolutamente che il Papa non esprima la rinuncia alla dignità papale in modo condizionato») (De Curia Romana etc., vol. II, De Curia Romana “Sede Vacante”, Romae, 1912, p. 7, Quaest. IV).

L’autorevole canonista faceva riferimento, poi, al caso di Benedetto IX, che, rinunciato al papato, desiderava riottenerlo: «Benedictus IX videtur nuncium pontificiae auctoritati misisse anno 1045 ac iterum eandem adipisci conatus fuisse anno 1047. Quidquid sit de hoc facto historico, quod in dubium revocant nonnulli auctores vei peculiari modo explicant, id unum indubie dicimus, nimirum R,. Pontificem, qui libere renunciaverit, quodlibet ius eo ipso amisisse, ita ut, pro denuo papali munere exercendo, nova equiratur electio ex parte Collegii Cardi nalium et si renuncians absque nova electione dignitatem pontificiam rursus exercere audeat, tamquam antipapa habendus profecto sit. Id liquido patet ex conceptu iuridictionis ecclesiasticae suapteque natura profluit ex modis quibus eadem iurisdictio amitti solet» («Benedetto IX sembra aver rinunciato all’autorità pontificia nel 1045 e aver cercato di riacquistarla nel 1047. Qualunque sia la verità su questo fatto storico, che alcuni autori mettono in dubbio o spiegano in modo particolare, possiamo dire una cosa con certezza: un Sommo Pontefice che abbia rinunciato liberamente ha perso qualsiasi diritto su di essa, al punto che, per esercitare nuovamente l’ufficio papale, sarebbe necessaria una nuova elezione da parte del Collegio dei Cardinali. Se il rinunciatario osasse esercitare la dignità pontificia senza una nuova elezione, dovrebbe certamente essere considerato un antipapa. Ciò risulta chiaramente dal concetto di giurisdizione ecclesiastica e deriva dalla sua stessa natura e dai modi attraverso i quali tale giurisdizione è normalmente persa») (ibidem, pp. 7-8, Quaest. V).

Il papa Benedetto IX, in effetti, rinunciò una prima volta al papato e, poi, ripreso il trono petrino, vi rinunciò una seconda volta dietro pagamento di una cospicua somma di denaro in favore del proprio padrino, con la riserva di risalire sul soglio pontificio una terza volta con effetto retroattivo. Quello di Benedetto IX fu un esempio classico di come una rinuncia condizionata (o sottoposta a termine) crei disordine e crisi di legittimità, dal momento che il pessimo Teofilatto III dei conti di Tuscolo (questo era il suo nome da laico) è considerato papa legittimo la prima volta e probabile antipapa le altre due.

Proprio per evitare dubbi sulla legittimità, nel caso storico di Celestino V, la rinuncia ebbe efficacia immediatamente (il papa dopo averla letta depose le vesti papali, riassunse quelle del monaco Pietro da Morrone e sedette ai piedi del trono papale).

Sempre per evitare incertezze, il padre Cappello aggiungeva che la rinuncia fosse resa pubblica con una bolla o una costituzione apostolica trasmessa all’intero orbe cattolico («Neque ad novam Cardinales procedere valent electionem, nisi postquam publice constiterit de renuntiatione per Bullam seu Constitutionem ipsius Pontificis renunciantis ad universum catholicumorbem transmissam»: ibidem, p. 6).

Nel 2015, dunque, la nostra canonista dell’Alma Mater Studiorum bolognese sosteneva come, per la canonistica maggioritaria, non valesse una rinuncia sottoposta a condizione (ed evidentemente anche a termine). Ma oggi, a distanza di quasi dieci anni, la prof.ssa Boni è dello stesso parere?

Un’altra possibile obiezione a questa nostra ricostruzione sarebbe quella che il papa sia supremo legislatore umano e, quindi, potrebbe con un suo atto di volontà derogare, anche per un caso particolare che possa essere quello suo personale, alla legislazione canonica positiva. E questo in virtù della sua plenitudo potestatis sancita dal can. 331.

È indubitabile che lo possa fare. Come negarlo? Tuttavia, sebbene non possa diffidarsi che un papa sia interprete del diritto divino e possa con la sua volontà derogare alle ordinarie norme canoniche, nondimeno è a lui preclusa qualsiasi possibilità di innovare nel diritto divino, potendo ciò farlo soltanto il Divino Legislatore. Insomma, un’interpretazione o una modifica, proveniente da un papa, che innovi o modifichi il diritto divino, sarebbe per ciò stesso invalida e sine effectu.

Il papa, dunque, per quanto possa legiferare, può disciplinare quegli aspetti che attengono al diritto umano, non già quelli che coinvolgono il Signore, cioè il diritto divino. Può esplicitare, al limite, ciò che è implicito o dettare una normativa di contorno riguardo agli aspetti secondari, ma non può modificare unilateralmente il diritto divino o le prerogative di Dio o sottoporre il Signore al suo volere discrezionale indicandogli tempi e modalità di conferimento o di ritiro della potestà. L’accettazione del papato (come anche la rinuncia), abbiamo detto, è un atto a due, in cui uno dei due soggetti è il Signore, che, a seguito dell’accettazione conferisce la potestà o, a seguito della rinuncia, la ritira.

Per cui, l’assioma – a cui si rifanno i due insigni canonisti – secondo il quale ciò che non sarebbe esplicitamente proibito sarebbe permesso non mi sembra che possa essere invocato nei casi in cui si venga a toccare la natura, l’essenza dell’atto, che ne sarebbe snaturata ed alterata, o comunque che tocchino le prerogative di Dio, vincolando il Signore ad un elemento accidentale umano (sia esso il termine o la condizione o il modo). La rinuncia, quindi, non può essere vista solo da una prospettiva giuridica umana, ma deve pure rispettare la dimensione sacrale e divina, su cui il papa non può intervenire.

Forse consapevole di questa difficoltà, lo stesso Francesco avrà lasciato cadere la proposta di legislazione avanzata dalla professoressa Boni e dalla sua equipe di lavoro.

Concludendo su questo primo punto, sembra evidente che l’atto di rinuncia non possa contenere elementi accidentali, pena la sua invalidità, analogamente a quanto avviene in materia sacramentale e segnatamente nell’ambito del matrimonio. Perché facciamo riferimento al matrimonio? Perché sovente la teologia e la canonistica, per rappresentare l’intima unione tra il papato e la Chiesa, spesso hanno fatto ricorso all’analogia del matrimonio, lasciando intendere che il papa, in un certo senso, accettando il supremo ufficio, sposi la Chiesa e con la rinuncia si separi dalla stessa. Significativo è notare che, nel caso del matrimonio, per es., il legislatore canonico non proibisca esplicitamente l’apposizione di un termine, per cui, seguendo la logica che ciò che non sarebbe proibito sarebbe permesso, si dovrebbe concludere che sarebbe possibile apporre un termine iniziale o finale all’efficacia del matrimonio? Evidentemente no, perché se vi fosse apposto, sarebbe frustrata la natura del vincolo nuziale.

Veniamo al secondo aspetto. Concerne la figura inedita creata da Benedetto XVI del cosiddetto papa emerito.

Scrivono i due canonisti: «Il brano estratto dal contributo di Violi permette peraltro di concentrare l’attenzione su un ulteriore aspetto, relativo allo status giuridico di “papa emerito” che, sebbene sia “assolutamente inedito nella storia della Chiesa” (p. 9), si è contraddistinto per alcune analogie con la condizione del vescovo emerito che ha governato la diocesi fino alla comunicazione dell’accettazione della rinuncia presentata una volta raggiunti i 75 anni di età (cfr. cann. 185 e 402 § 1 CIC). In entrambi i casi, infatti, il papa e il vescovo rinunciante non conservano più il potere di giurisdizione rispettivamente sulla Chiesa universale e particolare, ma permane la potestà d’ordine, vale a dire “la grazia e il carattere sacramentali dell’Episcopato, sui quali poggiano adeguatamente possibili compiti e missioni peculiari a [loro] ancora affidabili” (Congregazione per i vescovi, Il vescovo emerito, cit., p. 4; cfr. ampiamente Geraldina Boni, Sopra una rinuncia. La decisione di Benedetto XVI e il diritto, cit., passim). E Benedetto XVI ha ribadito tale immodificabile assetto allorquando specificò che l’istituto dell’“emeritato” avrebbe scongiurato una diarchia al vertice della Chiesa: posto che «la parola “emerito” indicava non il detentore in attività di una certa sede vescovile, ma l’ex vescovo che continuava ad avere un rapporto speciale con la sua sede di un tempo” (Peter Seewald, Benedetto XVI. Una vita, cit., p. 1205), un legame peculiare in forza del munus ricevuto con la consacrazione episcopale che, imprimendo un carattere indelebile, non sarebbe venuto meno con la rinuncia all’ufficio petrino» (pp. 5-6).

Commentando quindi lo studio dell’avvocato Estefanía Acosta, ripreso da padre Giorgio M. Faré, secondo cui «il papa non potrebbe in alcun modo, date le somiglianze tra la condizione canonica di “vescovo emerito” e quella di “papa emerito”, rinunciare all’ufficio di romano pontefice» trattenendo il munus, concludono che «tutto ciò non corrisponde alla coerente e coesa tradizione della Chiesa nonché alle effettive intenzioni di Joseph Ratzinger, che ha voluto abbandonare il soglio di Pietro aprendo la strada all’elezione del suo successore: pur mantenendo, alla pari dei suoi confratelli nell’episcopato, il munus derivante dal terzo grado del sacramento dell’ordine» (ibidem).

Questa prospettazione, per i due canonisti, consentirebbe di comprendere le parole di papa Benedetto all’udienza del 27 febbraio 2013, il quale, sebbene avesse utilizzato un «linguaggio giuridicamente non ineccepibile», nondimeno preannunciava «i tratti caratteristici dello stato di “papa emerito”, nel quale sarebbe “entrato” il giorno successivo, implicante la perdita dell’ufficio di romano pontefice e la preservazione di un vincolo di natura spirituale, nel nascondimento e nella preghiera, con la sede di Roma e dunque con la Chiesa universale» (ibidem, p. 6).

Devo dire onestamente che l’argomento dei due canonisti mi ha lasciato alquanto perplesso. Sebbene non si dica esplicitamente della natura sacramentale dell’ufficio papale, tuttavia questa la si lascia intendere con il parallelo, appunto, con la figura dell’emeritato episcopale: «In entrambi i casi, infatti, il papa e il vescovo rinunciante non conservano più il potere di giurisdizione rispettivamente sulla Chiesa universale e particolare, ma permane la potestà d’ordine, vale a dire “la grazia e il carattere sacramentali dell’Episcopato, sui quali poggiano adeguatamente possibili compiti e missioni peculiari a [loro] ancora affidabili”».

Certo, un papa rinunciante conserva la potestà di ordine, e certamente non torna laico, rimane sacerdote e vescovo. Ma il papato non appartiene alla potestà di ordine, è un ufficio ecclesiastico, non un sacramento e con la rinuncia non mantiene alcun legame, né giuridico né sacramentale, con l’ufficio petrino.

La tesi circa la sacramentalità del papato è sostenuta da una corrente minoritaria della canonistica, in cui va ascritto, per esempio il cardinale Ghirlanda, canonista di fiducia di Francesco, secondo cui, «nell’eventualità che il Papa cessi dal suo ufficio non a causa di morte, non perderebbe mai tale potestà, in quanto conferita da un atto sacramentale che comporta un carattere indelebile» (G. Ghirlanda, Cessazione dall’ufficio di Romano Pontefice, in Civ. Catt., 2013, I, pp. 459-60).

Ma si tratta di una tesi non condivisibile.

A noi sembra che, probabilmente, papa Ratzinger seguisse i suoi “schemi teologici”, con i quali si distaccava sensibilmente dalla consolidata tradizione canonistica, come ricorda, per esempio, il professor C. Fantappiè in un suo saggio (Riflessioni storico-giuridiche sulla rinuncia papale e le sue conseguenze, in Chiesa e Storia. Rivista dell’Associazione italiana dei professori di Storia della Chiesa, n. 4, 2014, pp. 91-118, partic. pp. 110 ss.).

E questo ha compiuto sicuramente con la creazione ex nihilo della figura inedita del papato emerito, volendo seguire, in fondo, a nostro sommesso avviso, le suggestioni proposte dal suo grande ed (ex) amico Karl Rahner, con cui condivise in gioventù la fondazione e la direzione della rivista Concilium, da cui poi si dissociò, per ragioni accademiche, fondando, con il teologo von Balthasar, la rivista Communio.

Come spiegavo nell’intervista rilasciata a Gaetano Masciullo e inserita in calce al libro di Federico Michielan, Non era più lui, pubblicato per i tipi Fede & Cultura nel febbraio 2023, pp. 159 ss., a cui rinvio per maggiori riferimenti, il Rahner, sin dalla fine degli anni Sessanta (Sull’episcopato, in Nuovi saggi, Edizioni Paoline, Roma, 1968, vol. I, pp. 522 ss.), e poi ancora nel 1974 in un piccolo libello di una novantina di pagine (Vorfragen zu einem ökumenischen Amtsverständnis, Freiburg im Breisgau, 1974), proponeva l’idea, rilanciata in Italia dalla Scuola teologica di Bologna di Alberigo, che il papato fosse il grado supremo del sacramento dell’ordine (il quarto), per cui l’ordinazione del papa alla sede primaziale sarebbe un’ordinazione episcopale specifica infondente un carattere indelebile.

Ne deriverebbe, in soldoni, che sarebbe rinunciabile la sede di Roma, ma non quella sorta di imprinting sacramentale, che si assumerebbe col papato.

Contro questa ricostruzione reagiva una figura al di sopra di ogni sospetto e anzi un legittimista di Francesco, quale il professor Roberto de Mattei, il quale, in un suo saggio, commentava: «Se il papa che rinuncia al pontificato mantiene il titolo di emerito, vuol dire che in qualche misura resta papa. È chiaro infatti che nella definizione il sostantivo prevale sull’aggettivo. Ma perché è ancora papa dopo l’abdicazione? L’unica spiegazione possibile è che l’elezione pontificia gli abbia impresso un carattere indelebile, che non si perde con la rinuncia. L’abdicazione presupporrebbe in questo caso la cessione dell’esercizio del potere, ma non la scomparsa del carattere pontificale. […] È possibile che Benedetto XVI condivida questa posizione, […], ma l’eventualità che egli abbia fatta propria la tesi della sacramentalità del papato non significa che essa sia vera» (Uno e uno solo è il papa, in Roberto De Mattei, 15 settembre 2014). Aggiungeva, sempre nello stesso saggio: «Il teologo Joseph Ratzinger […] pur non condividendo la concezione di Hans Küng di una Chiesa carismatica e de-istituzionalizzata, si è allontanato dalla tradizione quando ha visto nel primato di Pietro la pienezza del ministero apostolico, legando il carattere ministeriale a quello sacramentale».

Non so dire, essendo un giurista e non un teologo, se queste affinità elettive – chiamiamole così – rahneriane sul pensiero di Ratzinger riguardo alla sua concezione del papato siano conformi alla fede cattolica. Non spetta a me giudicarlo. Certo è che, comunque, un eletto al Sommo Pontificato, di fatto non riceve alcuna unzione né alcuna consacrazione.

Continua de Mattei nel saggio innanzi citato: «Il papa non è […] un supervescovo, né il punto di arrivo di una linea sacramentale che dal semplice prete, passando per il vescovo, ascende al sommo pontefice. L’episcopato costituisce la pienezza sacramentale dell’ordine e dunque al di sopra del vescovo non esiste alcun carattere superiore che possa venire impresso. Come vescovo il papa è uguale a tutti gli altri vescovi. Ciò per cui il papa sovrasta ogni altro vescovo è la missione divina che da Pietro si trasmette ad ogni suo successore, non per via ereditaria, ma attraverso l’elezione legittimamente svolta e liberamente accettata. […] Il primato del papa non è sacramentale ma giuridico. Esso consiste nel potere pieno di pascere, reggere e governare tutta la Chiesa, ossia nella giurisdizione suprema, ordinaria, immediata, universale e indipendente da ogni altra autorità terrena».

In un altro, più recente contributo, lo stesso autore, pur considerando valida la rinuncia ratzingeriana, nondimeno aggiunge: «[…] Benedetto XVI, dopo aver rinunciato al pontificato conserva il nome, mantiene la veste bianca, impartisce la Benedizione Apostolica, che spetta solo al Sommo Pontefice e rompe ancora una volta il silenzio a cui si era votato dimettendosi. In una parola si considera Papa, sia pure “emerito”. Questa situazione è la conseguenza di un grave errore teologico del cardinale Ratzinger. Conservando il titolo di Papa emerito, come avviene per i vescovi, egli sembra ritenere che l’ascesa al Pontificato imprima sull’eletto un carattere indelebile analogo a quello sacerdotale. In realtà i gradi sacramentali del sacerdozio sono solo tre: diaconato, presbiterato ed episcopato. Il pontificato appartiene ad un’altra gerarchia della Chiesa, quella di giurisdizione, o di governo, di cui costituisce l’apice. Quando viene eletto, il Papa riceve l’ufficio della suprema giurisdizione, non un sacramento dal carattere indelebile. Il sacerdozio non si perde neanche con la morte, perché sussiste “in aeternum”. Si può invece “perdere” il pontificato, non solo con la morte, ma anche in caso di volontaria rinuncia o di manifesta e notoria eresia. Se rinuncia ad essere pontefice, il Papa cessa di essere tale: non ha diritto a indossare la veste bianca né ad impartire la benedizione apostolica. Egli, dal punto di vista canonico, non è neanche più un cardinale, ma torna ad essere un semplice vescovo» (Il vero pasticcio è la coabitazione dei due Papi, in Corrispondenza romana, 15.1.2020).

Per cui, stando alla ricostruzione di un legittimista qual è il professor de Mattei, senz’altro più titolato del sottoscritto, non può dubitarsi che il papa resignante non possa conservare alcunché, salvo la sua potestà d’ordine quale semplice vescovo (avendo ricevuto l’ordinazione episcopale ed anzi sia imposta dallo stesso can. 332 § 1).

Non potendosi, perciò, ascrivere all’ufficio papale alcuna valenza sacramentale, ma solo giuridica, o si è papi o non lo si è. Non si può rimanere, come sostenuto da un teologo francese Jean-Philippe Goudot, una volta rinunciato, «un peu pape» o un «pape caché» (Benoît XVI: quels modèles pour une renonciation?, in Nouvelle revue théologique, 2014, p. 58), mantenendo alcune prerogative connotanti l’ufficio papale.

È significativo ricordare che nel precedente a cui Benedetto XVI si sarebbe ispirato, vale a dire quello di Pietro da Morrone, già Celestino V, questi chiese – una volta rinunciato al papato – di continuare a indossare i paramenti pontificali durante la celebrazione della messa, richiesta che fu respinta dal cardinale protodiacono Matteo Rosso Orsini (così ricordano V. Gigliotti, La tiara deposta. La rinuncia al papato nella storia del diritto e della Chiesa, Firenze, 2014, pp. 417-422; A. Frugoni, Celestiniana, Roma, 1954, pp. 94-99; P. Herde, Celestino V santo, in Enciclopedia dei papi, Roma, 2000, vol. II, p. 467; M. Dal Bello, Quando un papa si dimette. La storia di Celestino V, Roma, 2019, p. 59), proprio per non ingenerare il dubbio che la rinuncia non fosse stata plena.

Emblematicamente, sempre la professoressa Boni, nel menzionato saggio del 2015, confermava che «la qualifica episcopale scaturisce dalla consacrazione che imprime un carattere indelebile, mentre il papato non è un grado del sacramento dell’ordine. […] È da rigettarsi la tesi – invero del tutto minoritaria – che il papato sia il grado supremo del sacramento dell’ordine per cui l’ordinazione relativa del papa per la sede primaziale sarebbe un’ordinazione episcopale specifica infondente un carattere indelebile: ciò che tra l’altro, come più volte chiarito, inibirebbe la rinuncia. Gli argomenti si ripresentano in una circolarità inappuntabile» (Due papi a Roma?, cit., p. 52).

Per cui, se, come ammetteva la stessa professoressa Boni un decennio addietro, non sarebbe ammissibile immaginare che il papato costituisca l’ultimo grado del sacramento dell’ordine, possono trarsi solo due conclusioni.

In effetti, atteso che con la rinuncia al papato un pontefice non si autoriduce allo stato laicale, non perdendo il carattere sacramentale della consacrazione episcopale ricevuta (che è indelebile), ma torna semplice vescovo (e non cardinale, dal momento che il cardinalato non è né sacramento né sacramentale), del titolo di papa emerito non c’era assolutamente bisogno. A che pro rammentare, con questo titolo inedito, che, deponendo il proprio ufficio, egli non si spogliasse del munus sacramentale ricevuto con la sua consacrazione episcopale avvenuta il lontano 27 maggio 1977 per mano di monsignor Josef Stangl, vescovo di Würzburg?

Non se ne comprende l’utilità, visto che nessuno aveva messo in dubbio che egli, con la rinuncia, avrebbe continuato ad essere vescovo. Insomma, immaginare che papa Ratzinger avesse voluto con quel titolo – come vorrebbero in fondo i due canonisti – ribadire il suo carattere episcopale sembra davvero pleonastico.

La verità è che si vogliono ignorare le strade più semplici, attribuendo al papa teologo un pensiero contorto, ridondante e strambo.

Al contrario, dovrebbe concludersi, molto più realisticamente e linearmente o che papa Benedetto abbia preso una … colossale cantonata ovvero che egli, in verità, abbia invalidamente rinunciato al papato. Con tutte le conseguenze che una tale conclusione comporta sul successore.

Non si può sfuggire da questa logica. Per cui o si deve ammettere che papa Ratzinger abbia errato (con ripercussioni sulla sua fama di “grande teologo”, che ne verrebbe ridimensionata) o che abbia, volente o nolente, mai rinunciato validamente al papato.

Insomma, a mio sommesso avviso, il saggio dei due canonisti, rilanciato dalla giornalista Scrosati, lascia più dubbi che certezze, dal momento che si preferisce inerpicarsi su sentieri assai tortuosi e dal dubbio esito.

*avvocato, dottore di ricerca in scienze canonistiche ed ecclesiastiche

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