Sul modello “democratico” della scuola montessoriana

di Maria Chiara Nordio*

Terminata l’era fascista, l’Italia si accingeva a scoprire una vocazione democratica nella Repubblica. Per tutti gli enti della nuova società occorreva ritrovare un nuovo assetto coerente con la democrazia. Giustizia, sanità, educazione… tutto doveva essere ri-statalizzato, non più in base alla propaganda fascista ma in senso democratico. E, guardando alla scuola, qual era l’esempio migliore cui tendere per ricalcare anche in Italia questa prospettiva “democratica”? Sicuramente la Russia di allora. Già nel primo governo Lenin (1918), il ministro dell’Istruzione Aleksandra Kollontaj aveva spiegato che “nella società socialista tutti gli oneri familiari avrebbero dovuto essere assurti dallo Stato” e quindi la scuola avrebbe dovuto educarli a questo indirizzo.

Anche in Italia risultava quanto mai opportuno prendere a riferimento la rivoluzione russa, ma come fare? I pedagogisti in voga allora, come ad esempio le sorelle Agazzi, Carolina e Rosa, e prima di loro Antonio Rosmini, avevano un’impronta totalmente cristiano-cattolica. Bisognava quindi trovare qualcuno che avesse una vena di sinistra, del tutto “democratica”. Ma dove cercare?

La soluzione migliore, priva di rigurgiti fascisti ma totalmente progressista, positivista e femminista, sembrò concretizzarsi nella persona di Maria Montessori, medico psichiatra e filosofo, cacciata dall’Italia proprio dal Duce. Non una pedagogista, un’insegnante, una maestra, un’educatrice, ma una ricercatrice, un medico che, osservando clinicamente per anni i bambini “deficienti”, pensò di estendere le sue conclusioni a tutto il mondo infantile. Nessun metodo pedagogico, nessuna pedagogia speciale da parte sua: solo osservazione clinica. Psichiatra che non fu mai pedagogista, ma acquisì il titolo ad honorem, Montessori fu definita “la più grande pedagogista del 1900”, colei che per prima ebbe “il coraggio di stabilire che l’educazione doveva mettere al centro il bambino”, ma proprio lei, per anni, nascose con la vergogna e ripudiò il figlio, il “nipote” Mario, nato da una relazione col collega Montesano. Una psichiatra, Maria Montessori, formata sul pensiero psicodinamico di Sigmund Freud, approccio che tendeva ad allontanare, slacciare, scollegare i bambini dalle proprie famiglie sul modello sovietico che nel frattempo consolidava il pensiero di Nikolaj Ivanovič Bucharin, secondo cui la scuola doveva adeguare “il modo di pensare generale alle nuove relazioni sociali, e soprattutto educare una nuova generazione, che potesse procedere sul terreno della nuova società comunista”.

A Bucharin faceva eco il massimo pedagogista sovietico Anton Semenovyc Makarenko, il quale sosteneva che “solo il collettivo può e deve essere il fondamento dell’educazione pedagogica e stimolo potente al miglioramento del singolo”. Questi erano i migliori modelli “democratici” di allora, che anche l’Italia si apprestava ad adottare.

Chiara la radice del pensiero, radicato negli insegnanti di oggi, circa la socializzazione come unica e necessaria panacea per ogni male. Maria Montessori incarnava perfettamente questo tipo di volontà. Bisognava convincere le famiglie e lo Stato che i migliori educatori dei propri figli non fossero i rispettivi genitori. La famiglia e la casa dovevano essere percepite come luoghi alienanti per il bambino che viveva in situazioni igieniche precarie, con genitori poveri culturalmente oltre che economicamente. Doveva diffondersi l’idea che i bambini non potevano vivere da bambini, ma come piccoli adulti da crescere in fretta, come nuova forza lavoro. Per tutte queste ragioni bisognava “salvare” il bambino da quella famiglia malvagia ponendolo quindi al centro dell’interesse dello Stato, visto che non rivestiva il naturale interesse dei genitori. Lo Stato doveva trovare per il bambino una nuova casa dove si sentisse protagonista, dove si sentisse più legato e libero con gli altri bambini e l’educatore rispetto a quanto non si sentisse nel suo focolare domestico con la sua famiglia.

L’obiettivo era creare nuove “famiglie sociali” e nuove case, sottraendo i bambini all’educazione, all’amore e a Dio e sostituendo il tutto con l’ideologia laica e collettiva del bambino al centro. Non a caso, le “scuole montessoriane” furono chiamate, dalla stessa Montessori, “case dei bambini”.

Nel tempo questa cultura si diffuse e si consolidò al punto che proprio i genitori furono i primi a convincersi che l’educazione e l’istruzione dei propri figli dovesse essere delegata allo Stato, rinunciando così al loro ruolo naturale e spirituale.

Da qui l’incessante proliferazione di progetti per “educare” i giovani in una scuola che, paradossalmente, è causa del danno sociale e allo stesso tempo è chiamata a porvi rimedio con i medesimi nefasti paradigmi educativi.

Ebbene, occorre invertire la rotta, demolendo la scuola “democratica”, rimettendo il maestro in cattedra e riconsegnando il focolare domestico alla famiglia.

*pedagogista

www.scuolanordio.org

 

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