Omosessuali e seminari. I giornali parlano di “passo avanti” ma “Avvenire” frena: “Le norme non cambiano”
“Nuove linee guida della Cei, ammessi in seminario anche i gay”. Così hanno titolato tante testate giornalistiche dopo la pubblicazione da parte della Conferenza episcopale italiana del documento Orientamenti e norme per i seminari sui percorsi formativi per i candidati al presbiterato.
Scrive, per esempio, il Corriere della sera: “È ancora una norma approvata in via sperimentale per tre anni, ma intanto c’è il via libera del Vaticano e rappresenta un passo avanti notevole, a conferma delle aperture già filtrate nell’ultimo anno dalla Cei presieduta dal cardinale Matteo Zuppi: i seminari italiani ammetteranno candidati al sacerdozio omosessuali, purché da parte loro – come peraltro viene richiesto anche ai candidati eterosessuali – si garantisca l’impegno a scegliere liberamente e vivere responsabilmente la castità nel celibato”.
Davanti a queste letture, la Cei ha sentito il bisogno di correre ai ripari con un articolo di Avvenire: “Le norme sulla non ammissione al sacerdozio di persone omosessuali non cambiano. La precisazione si è resa necessaria dopo una lettura parziale e non contestualizzata da parte di alcuni organi di stampa del paragrafo 44 del documento che affronta proprio il tema dell’omosessualità nel percorso formativo dei seminari”.
Infatti, spiega il giornale dei vescovi, il paragrafo in questione non fa che ripetere, parola per parola, quanto stabilito nel 2016 da un documento della Congregazione per il clero, il quale a sua volta riprende i contenuti di una istruzione pubblicata dalla Congregazione per l’educazione cattolica nel 2005.
Aggiunge Avvenire: “La vera novità del documento, in realtà, è l’attenzione che le nuove norme pongono sul discernimento in particolare nel primo triennio del percorso formativo”.
“Al primo posto intendiamo porre la persona – ribadisce il vescovo di Fiesole, Stefano Manetti, presidente della Commissione episcopale per il clero e la vita consacrata – aiutando i candidati al sacerdozio a fare chiarezza dentro sé stessi”.
In ogni caso, a beneficio dei lettori di Duc in altum, ecco l’intero paragrafo 44 del documento La formazione dei presbiteri nelle chiese in Italia. Orientamenti e norme per i seminari, nel quale si affronta la questione.
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“In relazione alle persone con tendenze omosessuali che si accostano ai seminari, o che scoprono nel corso della formazione tale situazione, in coerenza con il proprio Magistero, la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay. Le suddette persone si trovano, infatti, in una situazione che ostacola gravemente un corretto relazionarsi con uomini e donne” [1].
Nel processo formativo, quando si fa riferimento a tendenze omosessuali, è anche opportuno non ridurre il discernimento solo a tale aspetto, ma, così come per ogni candidato, coglierne il significato nel quadro globale della personalità del giovane, affinché, conoscendosi e integrando gli obiettivi propri della vocazione umana e presbiterale, giunga a un’armonia generale. L’obiettivo della formazione del candidato al sacerdozio nell’ambito affettivo-sessuale è la capacità di accogliere come dono, di scegliere liberamente e vivere responsabilmente la castità nel celibato. Infatti, essa “non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui” [2].
Inoltre, “il celibato per il Regno dovrebbe essere inteso come un dono da riconoscere e verificare nella libertà, gioia, gratuità e umiltà, prima dell’ammissione agli ordini o della prima professione” [3].
Questo non significa solo controllare i propri impulsi sessuali, ma crescere in una qualità di relazioni evangeliche che superi le forme della possessività, che non si lasci sequestrare dalla competizione e dal confronto con gli altri e sappia custodire con rispetto i confini dell’intimità propria e altrui. Essere consapevole di ciò è fondamentale e indispensabile per realizzare l’impegno o la vocazione presbiterale, ma chi vive la passione per il Regno nel celibato dovrebbe diventare anche capace di motivare, nella rinuncia per esso, le frustrazioni, compresa la mancata gratificazione affettiva e sessuale.
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[1] Congregazione per il clero, Il dono della vocazione presbiterale, §199.
[2] Francesco, Lettera apostolica Patris corde. In occasione del 150°anniversario della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa Universale, 8 dicembre 2020, §7.
[3] Sinodo dei vescovi, Documento finale del Sinodo dei vescovi sui giovani, §100.