Intrappolati dentro i sistemi algoritmici. Così diventiamo più stupidi. E meno efficienti
di Thomas Harrington
Avevo bisogno di una lettera che certificasse che non soffro di una malattia di interesse internazionale. Così sono andato dal mio medico di base.
Ben sapendo che gli studi medici sono spesso affollati, ho pensato di semplificare il lavoro del personale portando con me alcuni documenti: una copia del regolamento sanitario internazionale dell’Oms sulle malattie di interesse internazionale, l’elenco delle malattie in questione e le istruzioni su come scrivere la lettera (carta intestata dello studio, timbro dello studio, firma del medico).
Mi hanno assicurato che conoscevano questa procedura e che non ci sarebbero stati problemi. Anche quando ho detto che sarebbe stato fantastico se avessero potuto scrivere la lettera sia in inglese sia in spagnolo mi è stato assicurato che non ci sarebbe stato alcun problema, dato che tra il personale c’era un fornitore di madrelingua spagnola che avrebbe potuto scriverla.
Sempre per facilitare le cose, ho fornito loro una copia di una lettera simile scritta per me tempo fa da un medico in Spagna: in tutto, ventisette parole in spagnolo e un paio in più in inglese.
Poiché erano presenti due membri dello staff e uno di loro non stava facendo altro che scorrere immagini sul cellulare, ho pensato che uno dei due avrebbe potuto scrivere velocemente la lettera e controllare la mia cartella clinica per verificare se avevo una delle malattie di interesse internazionale (ero stato lì una settimana prima per il mio controllo annuale). Altrettanto rapido e semplice sarebbe stato chiedere a un medico di firmare la lettera tra una visita e l’altra.
Tuttavia, quando ho chiesto alla donna di fronte a me quanto tempo ci sarebbe voluto, mi ha risposto: “Dai tre ai cinque giorni lavorativi. Questa è la procedura. La chiameremo quando sarà fatto”.
Quando ho detto che ne avevo bisogno per un appuntamento il lunedì successivo a New York e che se non avessi avuto tutti i documenti sarebbero passati mesi prima che potessi avere un altro appuntamento, mi hanno ripetuto che avrebbero scritto la lettera verso la fine della settimana, probabilmente venerdì sera.
Venerdì, alle due meno un quarto, ho ricevuto una chiamata che mi diceva che la lettera era pronta per essere ritirata. Sollevato, sono entrato nello studio medico, ho controllato velocemente la lettera e sono uscito. Dopo averla ricontrollata a casa, tuttavia, mi sono reso conto che mancava la firma di un medico, che era uno dei primi requisiti contenuti nell’elenco di istruzioni da me consegnato lunedì.
Così sono tornato allo studio e ho spiegato che la lettera sarebbe stata inutile, causa la procedura burocratica in questione, senza la firma di un medico. A quel punto si stavano avvicinando le tre e un quarto e lo studio avrebbe chiuso alle cinque.
La donna dietro il bancone ha detto che non sapeva davvero cosa fare. Ho replicato: “Perché non chiede a uno dei dottori dello studio (sono stato spostato da un dottore all’altro a causa di ingorghi di programmazione da parte loro negli ultimi anni)? Dopotutto, non comporta la divulgazione di nessuno dei miei dati clinici personali, a parte il fatto che non ho nessuna delle malattie menzionate”.
Dopo avermi ascoltato senza dire nulla, l’addetta è andata a parlare con il suo manager.
Quando è tornata mi ha detto: “Farò un ordine”, e ha incominciò a digitare sul suo computer cercando la pagina dove potesse “fare un ordine”. Il tutto per qualcosa che poteva essere fatto letteralmente in due o tre minuti semplicemente andando da uno dei medici dello studio.
Ho detto: “Fare un ordine a questo punto?”, ripetendo la proposta di rivolgersi a un medico e per chiedergli di firmare.
L’addetta mi ha risposto: “Quella non è la procedura. Inoltre il suo medico non è più in studio”, sottintendendo che, mentre potevano spostare i pazienti da un medico all’altro in base alle loro esigenze di programmazione, la mia richiesta che un membro dello stesso gruppo di medici apparentemente intercambiabili svolgesse questo semplice compito con le stesse premesse era vietatissimo.
Dopo un altro giro dal direttore invisibile, l’addetta è tornata dicendo che potevo andarmene e che mi avrebbero chiamato se e quando il problema si fosse risolto.
Un’ora dopo ho ricevuto una chiamata in cui mi veniva detto che era tutto sistemato e che potevo andare a ritirare la lettera.
Con un’espressione sorridente, la signora mi ha consegnato la lettera di ventisette parole. Ma c’era di nuovo un problema. Non era firmata da un medico, bensì da una APRN [Advanced Practice Registered Nurse, infermiera registrata di pratica avanzata: può diagnosticare malattie e fornire servizi, N.d.T.].
Quando ho ripetuto che le istruzioni dicevano chiaramente che la lettera doveva essere firmata da un medico e che l’agenzia governativa straniera a cui la stavo portando era nota per rifiutare documenti che non fossero esattamente conformi ai loro requisiti, un’espressione confusa è comparsa sul volto dell’addetta.
Mi ha chiesto di sedermi nella sala d’attesa ed è corsa di nuovo dal direttore. Erano ormai le cinque meno un quarto del pomeriggio e mancavano quindici minuti alla chiusura.
Circa dieci minuti dopo, il manager fino a quel momento invisibile è emerso dal suo ufficio e, con il volto sorridente, mi ha assicurato che il problema si sarebbe risolto a breve. E così è stato.
Alle cinque meno cinque l’addetta è uscita con la lettera firmata, presumo fra una visita e l’altra, dall’unico medico rimasto nello studio.
In altre parole, la questione è stata finalmente risolta con il metodo non algoritmico, ma estremamente pratico e personale, che avevo proposto quattro giorni prima.
Qual è la morale della storia?
Non voglio dire che le persone che lavorano in quello studio siano tutte irrimediabilmente stupide… almeno non ancora.
Piuttosto, si tratta di riflettere su un fenomeno dilagante, di cui raramente parliamo apertamente e mai denunciamo come meriterebbe. Mi riferisco al modo in cui una élite manageriale, caratterizzata da un disprezzo generalizzato per la maggior parte dei propri concittadini e da una servile adesione a una nozione di “efficienza” estremamente ristretta e generata algoritmicamente, ha creato decine di cosiddetti sistemi a prova di idiota che disumanizzano e demoralizzano coloro che ci lavorano o interagiscono.
Ma c’è di più. Questi sistemi, che hanno un enorme successo nell’impedire alle aziende che li progettano di ascoltare e servire consapevolmente coloro che acquistano i loro beni e servizi, non sono nemmeno efficienti, come dimostra la mia piccola storia di cui sopra.
Tutti noi che abbiamo una certa età e abbiamo lavorato in ufficio conosciamo (o abbiamo conosciuto) quella persona meravigliosa, dotata di una personalità vivace, un’intelligenza rapida e ottime capacità sociali, a cui ci si poteva sempre rivolgere per risolvere le cose in un attimo.
Lei (sì, di solito era una lei) conosceva i punti di forza e di debolezza di ogni collega, conoscenza che sfruttava per far sì che le cose accadessero nel modo più discreto ed efficiente possibile, spesso tirando fuori i colleghi da situazioni difficili.
Mi dispiace dirlo, ma sembra che oggi questi elementi fondamentali della cultura aziendale siano estremamente rari. E non perché, come molti credono, nella nostra società mancano persone capaci, ma perché, nonostante tutta la retorica sulle risorse umane, le persone che progettano e gestiscono i sistemi in cui lavoriamo sono spesso dei veri nichilisti per i quali i processi vivificanti delle relazioni umane non significano quasi nulla.
Intrappolati nella tirannia della mente algoritmica, non riescono nemmeno a immaginare come coloro che considerano inferiori potrebbero, se lasciati a sé stessi, essere in grado di generare maggiore efficienza rispetto ai tanto decantati sistemi razionali, e in più con una buona dose di gioia.
Quel che è peggio è che questi manager non si rendono conto di un fatto: mettere le persone all’interno di sistemi che presumono che esse siano stupide alla lunga renderà più stupidi anche gli intelligenti. E anche più tristi e, in definitiva, insensibili a tutto e a chiunque.
È questo che l’élite manageriale vuole davvero? Oppure l’immaginazione dei manager è già così impoverita da fantasie di perfezione algoritmica da non capire l’ondata di distruzione spirituale che hanno messo in moto e alimentano quotidianamente?
Sinceramente, vorrei saperlo.
Fonte: brownstone.org