Una storia infoibata

di Fabio Battiston

Foibe, una parola che evoca orrore, morte e crudeltà. Una parola che per tanto, troppo tempo è stata nascosta, oscurata e negata. Dalla fine della Seconda guerra mondiale e per parecchi decenni successivi, la verità su quelle vicende e quei massacri è stata la vittima sacrificale sull’altare di una delle più vergognose operazioni di mistificazione storico-politica del nostro Paese. Fortunatamente, anche se tardivamente, il velo su quella tragedia e sulle responsabilità politiche che contraddistinsero il suo oblio è stato squarciato. Dal 2004, finalmente, possiamo celebrare ogni 10 febbraio il Giorno del ricordo per commemorare e mantenere viva la storia delle migliaia di italiani dell’Istria massacrati alla fine del secondo conflitto mondiale, ma anche a guerra finita, dalla soldataglia del maresciallo Tito. Delitti compiuti con la complicità più vile e odiosa di altri italiani i cui eredi, oggi, sventolano ancora l’assurda e oramai impresentabile bandiera dell’antifascismo. Alla memoria di questi martiri si unisce quella delle migliaia di persone che, private di ogni loro bene, furono costrette a un’umiliante e forzata emigrazione (esodo giuliano-dalmata).

Non intendo ripercorre quegli eventi e gli squallidi negazionismi che ne seguirono. Si è fortunatamente scritto e detto molto sulla vicenda in questi ultimi vent’anni. La Storia, una volta tanto, ci riconsegna verità e rispetto per quelle vittime e i loro cari. Tuttavia, come omaggio a quei morti, qualcosa di quegli eventi va ricordata. Lo faccio riprendendo un episodio, anch’esso per decenni sepolto nella vergogna dell’oblio, accaduto in Italia nel febbraio 1947. Una storia infoibata, tra le tante che lentamente ma inesorabilmente dovranno essere conosciute. Come quella del massacro di Porzus, ad esempio, recentemente e meritoriamente riemersa dal buio imposto dal più becero pseudo-antifascismo militante.

Torniamo dunque al 1947. In quei giorni arrivarono nel nostro Paese i profughi istriani, italiani vittime della crudeltà dei vincitori. Ma non trovarono sempre una calorosa e solidale accoglienza. Ecco quel che accadde a Bologna, alla stazione centrale, il 18 febbraio. Quel giorno arrivò quello che divenne noto – per poi essere dimenticato – come il Treno della vergogna.

Un breve resoconto tratto da Wikipedia ci restituisce un racconto attendibile: ho cercato e trovato i necessari riscontri.

«La domenica del 16 febbraio 1947 da Pola partirono per mare diversi convogli di esuli italiani con i loro ultimi beni e, solitamente, una bandiera d’Italia. I convogli erano diretti ad Ancona dove gli esuli vennero accolti dall’sesercito a proteggerli da connazionali, militanti di sinistra, che non mostrarono alcun gesto di solidarietà. La sera successiva partirono stipati in un treno merci, sistemati tra la paglia all’interno dei vagoni, alla volta di Bologna, dove la Pontificia opera di assistenza e la Croce rossa italiana avevano preparato dei pasti caldi, soprattutto per bambini e anziani. Il treno giunse alla stazione di Bologna solo a mezzogiorno del giorno seguente, martedì 18 febbraio 1947. Qui, dai microfoni di certi ferrovieri sindacalisti Cgil e iscritti al Pci, fu diramato l’avviso: “Se i profughi si fermano per mangiare, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno venne preso a sassate da dei giovani che sventolavano la bandiera rossa con falce e martello, altri lanciarono pomodori e sputarono sui loro connazionali, mentre taluni buttarono addirittura il latte, destinato ai bambini in grave stato di disidratazione, sulle rotaie, dopo aver buttato le vettovaglie nella spazzatura».

Poche settimane prima, dalle colonne de L’Unità del 30 novembre 1946, Piero Montagnani aveva descritto con queste infami e ignobili parole coloro che abbandonavano le terre divenute parte della nazione jugoslava governata dal dittatore comunista Josip Broz Tito: «Ancora si parla di profughi: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi».

Questi i resoconti nella loro cruda essenzialità. Italiani contro italiani e, si badi, non un contrasto tra combattenti ma un’aggressione dei “vincitori”, democratici e antifascisti, contro masse di profughi civili la cui unica colpa era quella di aver vissuto, da italiani, in una terra sbagliata.

Foibe fu la parola che, negli anni, simboleggiò questa tragedia; un termine che, per sempre, resterà sinonimo di vergogna e orrore. Purtroppo questi tetri sostantivi sono stati più volte richiamati anche nelle cronache che hanno preceduto le celebrazioni 2025. I paladini dell’antifascismo, dall’alto della loro indiscutibile moralità sociale e politica, hanno infangato come consuetudine la memoria di quegli avvenimenti. C’è chi lo ha fatto mettendo in atto la solita violenza, sopraffazione e protervia e chi, non meno volgarmente, con indegne prese di posizione ammantate di intellettualmente e politicamente corretto. In un modo o nell’altro, costoro hanno tutti adempiuto al loro sporco dovere: assassinare per l’ennesima volta quelli che i loro predecessori massacrarono ottant’anni fa.

 

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