Se nel monastero (cattolico) trovi Buddha e l’ayurveda
Cari amici di Duc in altum, oggi vi propongo la lettera inviatami da un lettore il quale riferisce di una sua esperienza piuttosto, diciamo così, disorientante. Andato in visita a un celebre moanstero cattolico, vi ha trovato in vendita prodotti e libri che non solo di cattolico non hanno nulla, ma si rifanno a ben atre tradizioni religiose e atre fedi. Tutto normale?
A.M.V.
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Gentile Valli, cari fratelli e sorelle in Cristo, esordisco col chiarire che questa mia lettera non vuole in alcun modo mancare di rispetto a una specifica istituzione monastica, né tantomeno gettare il discredito sul monachesimo in quanto tale – sia esso latino o orientale –, né, infine, propagare il dubbio (che non sarebbe di per sé illecito, visti i tempi che corrono e visto l’esempio non sempre edificante di certi monaci o di certe monache) sull’utilità della venerabile tradizione monastica. Al contrario, è mio convincimento che il monachesimo, suscitato dalla divina Sapienza in seno alla sua Sposa in tempi assai critici per l’integrità del dogma e della Verità, sia stato e sempre sarà una componente fondamentale della Chiesa di Dio, incaricato dal Signore di annunziare con la stessa credibilità dei profeti dell’Antica Alleanza la verità immutabile del Vangelo, e di testimoniare al contempo la gioia della conversione al divin Maestro.
Fatta questa premessa, mi sia lecito ora riportare, in breve, un episodio che mi ha personalmente rattristato, al punto da deludere le – ingenue? – aspettative che mi ero formate mentre preparavo la visita a un celebre monastero italiano.
Di tale monastero, mi capirete, tacerò il nome, perché esso non venga esposto inutilmente al vituperio, né si diffamino i santi monaci che tuttora vi abitano, e ai quali va la mia filiale e tenera devozione. Basti sapere che trattasi di un famoso cenobio, che per secoli ha illuminato la Chiesa e il mondo con esempi di santità e dottrina.
Ora, quale non è stata la mia amara sorpresa quando, entrato nel negozio annesso a tale monastero, ho constatato la qualità del materiale in vendita! Accanto agli immancabili strumenti di devozione e ai prodotti alimentari e cosmetici – che sempre figurano nelle boutique di monasteri e conventi e che rappresentano tradizionalmente un mezzo di sussistenza per le istituzioni stesse –, figuravano oggetti la cui presenza in un monastero cattolico ha destato in me, come minimo, una certa sorpresa: scatole di “incenso astrale” (così recitava l’etichetta) per la meditazione, campane tibetane, incenso auroshika (prodotto, stando alla vulgata, nel sud dell’India), tappetini per lo yoga, sciarpe con disegnati dei mantra eccetera. La sensazione di essere in un ashram del Kerala non sarebbe stata poi così ingiustificata. Sono rimsto disorientato, e con me anche la persona che mi accompagnava. Non che avessimo voglia di stracciarci le vesti (anche se un po’ sì), piuttosto non sapevamo come spiegare una situazione così paradossale. Lì, nel negozio di un monastero cattolico, dove uomini chiamati dal Dio tre volte santo hanno deciso di rinunciare al mondo per vivere di Lui e cercare il Suo volto; lì, dove Cristo si manifesta come unico Sposo e Signore attraverso la vita di questi santi eremiti; ebbene, lì, senza colpo ferire, il commercio si fa anche – o prioritariamente? – con oggetti legati a tutt’altro universo culturale, antropologico, religioso.
Ho deciso quindi di passare alla sezione libri, sperando – con poca convinzione, debbo dire –, che potesse risollevarmi il morale. Speranze vane. Accanto a libri di provata dottrina, comparivano pubblicazioni dai titoli sicuramente molto glamour e coerenti con il trend dell’ecclesialmente corretto, almeno con quel trend a cui certe tendenze attuali e certi nuovi paradigmi ci hanno abituati: Meditazione. Dalla preghiera pura di Evagrio Pontico al raja-yoga di Patañjali di A. Bayer; Risveglio a sé, risveglio a Dio di H. Le Saux; Fiume di compassione. Un commento cristiano alla Bhagavad Gita di B. Griffiths; L’origine del metodo psicofisico esicasta. Analisi di un antico testo indiano: l’Amṛtakuṇḍa di C. Greppi; Il loto e la croce di M. Pallis; e, infine, un titolo assai inquietante: Senza Buddha non potrei essere cristiano, di P. Knitter.
Non è nelle intenzioni di chi scrive ripercorrere l’incompatibilità intrinseca fra le tradizioni religiose naturaliste e panteiste, tipiche dell’Oriente, e le tradizioni che concepiscono l’esistenza di un Dio trascendente e personale, proprie dell’Occidente, che si manifestano nelle tradizioni cosiddette abramitiche (giudaismo, cristianesimo, Islam). Questa distinzione fondamentale, che si estrinseca contemporaneamente a livello cosmologico, teologico e antropologico, è stata oggetto di diversi interventi da parte dell’autorità ecclesiastica (penso alla Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana, dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, datata 15 ottobre 1989), così come da parte di teologi di provata ortodossia quali il rev. p. Joseph Marie Verlinde (penso anzitutto ai suoi libri e interviste L’expérience inter-dite e Du gourou à Jésus).
Date queste premesse, non ho alcun interesse a ribadire cose che sono alla portata di qualsiasi lettore e alle quali non potrei aggiungere nulla di nuovo. Mi permetto solo una riflessione critica: che cos’è successo? Come siamo passati dal vendere breviari e vite di santi allo smerciare campane tibetane e spiritualità induista? Perché un cristiano non si accontenta più di Cristo, via verità e vita, e sente il bisogno di altre vie, di altre verità, di altre fonti di vita? Si è forse prosciugata la sorgente che dal cuore squarciato di Gesù crocifisso ha irrigato la Chiesa nei secoli e continua a portare sugli altari di tutto il mondo la vita nuova dello Spirito?
Va da sé che lo studio di altre tradizioni non può e non deve essere ostacolato o scoraggiato, ché anzi dalla conoscenza di altre esperienze religiose si potrà mettere sempre meglio in luce l’unicità dell’annunzio cristiano e della nostra fede, “molto più preziosa dell’oro” (1Pt, 1,7). Non sta in ciò, chiaramente, il punto della mia riflessione. Ma ci sono tempi e luoghi, e la riflessione dev’essere condotta e articolata in modo da evitare ogni occasione di confusione e di scandalo per i fedeli. Altrimenti detto, la riflessione circa altre tradizioni teologiche e ascetiche dev’essere condotta da chi ne abbia le competenze (scientifiche e teologiche), e dovrebbe avere come fine, mea quidem sententia, l’edificazione del popolo cristiano, e non dovrebbe portare a un caotico calderone sincretista in cui il relativismo la fa da padrone. Un fedele con una debole formazione teologica e catechetica non si sentirà forse autorizzato a un approccio relativista se messo davanti a uno scaffale di libreria come quello descritto pocanzi? Come potrà sentirsi incoraggiato e guidato nel discernimento quando sullo stesso scaffale troverà l’Imitazione di Cristo e un libro che ci insegna che conoscere la dottrina del Buddha è un prerequisito irrinunciabile per chi vuole seguire il Signore Gesù?
Ora, mi sia concessa una distinzione: è ammissibile, da un punto di vista meramente sociologico, che una tale confusione e perdita di senso si produca in cristiani poco informati, assetati di spiritualità e incapaci di trovare – e a ragione – una proposta valida in ciò che i sacri pastori, spesso, propongono loro durante la catechesi. Ciò si può certamente giustificare da un punto di vista, ripetiamolo, strettamente sociologico; altra cosa sarebbe il giudizio morale, che non mi compete, e per il quale vorrei comunque sempre invocare la buona fede. Si converrà, tuttavia, che quando ad agire in tal senso sono gli uomini che Dio ha incaricato, nella Chiesa, di pascere il Suo gregge, il discorso si fa più complicato e, francamente, più inquietante. Cosa si cela dietro a monaci cristiani che vendono incenso astrale e tappetini da yoga?
La risposta che mi sento di dare, io che non sono né sociologo, né teologo né storico in senso stretto, è assai amara, e molto vecchia: la perdita di senso e di identità. In un’epoca in cui la Verità è vituperata e spregiata assieme alle sue sorelle, la Pudicizia e l’Obbedienza (ormai classificate fra i vizi più ridicoli e ridicolizzabili di chi ancora invoca, sottovoce, l’autorità e la tradizione), anche tanti pastori sembrano aver gettato la spugna. Anziché usare il vincastro per picchiare il lupo, che si avvicina al gregge vestito da pecora, lo aggregano al gregge: poco male se quando essi girano un attimo le spalle il lupo sbrana le altre pecore, l’importante è che esso sia stato integrato, anche se sotto la lana posticcia si intravvede il malcelato pelame nero.
“Oh cielo – si dirà – ci mancava solo l’ennesimo reazionario, ansioso di reprimere l’errore e di mostrarsi più realista del re!”. Ebbene, amici e fratelli nella tribolazione, no, mai e poi mai crederei di essere più cattolico del papa, mai e poi mai fuggirei dall’unica barca in cui si trova la salvezza. Immaginatemi piuttosto come un figlio impaurito, disorientato e confuso di fronte a una madre che si ubriaca e dice oscenità, una madre che non saprebbe mai disconoscere, ma che lo preoccupa, lo fa piangere e lo spaventa. Questo figlio, come ogni figlio, non lascerà mai la madre, che pure lo confonde e lo scandalizza, ma come negargli il diritto di piangere?
Vorrei concludere questa meditazione, certo un po’ patetica nelle ultime righe, con la frase che mi ha regalato un’amica, recentemente conosciuta, docente di lettere in un liceo italiano. Un suo studente di diciotto anni, a cui lei spiegava la Divina commedia, le tenne un discorso più o meno di questo tenore: “Sa, professoressa, io non sono credente, e le spiego perché: perché se vado in chiesa, non vorrei sentire sempre le stesse cose, vorrei una Chiesa che mi dicesse dove si trova la salvezza”. Un’analisi lucida e impietosa, che ci viene dalle labbra di un outsider (un altro figlio deluso?), e che non può non farci riflettere. Ma lo scandalo e il disorientamento non hanno e non potranno avere l’ultima parola, poiché venne “nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), che ci “ha dato potere di diventare figli di Dio […], i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,13).
Pietro D’Agostino