Infodemia. Se il virus colpisce anche l’informazione
In questi giorni di pandemia e di quarantena siamo tutti alla ricerca di informazioni. E più le cerchiamo più ci rendiamo conto di quanto sia difficile ottenere informazioni chiare, attendibili, oneste. Abbiamo tante informazioni, ma le domande di fondo restano ancora senza risposta. Tutto è come immerso in una sorta di nebbia, resa ancora più densa dalle immancabili bufale, le cosiddette fake news. Ma come riconoscere le bufale in mezzo a una tale valanga di notizie, commenti e valutazioni? Può bastare il nostro buon senso?
Oltretutto, la situazione in cui ci troviamo suscita preoccupazione, la preoccupazione alimenta l’ansia, l’ansia ci rende meno lucidi e la mancanza di lucidità ci rende più vulnerabili.
La parola che indica il caos delle informazioni che si sovrappongono è infodemia, che non a caso assomiglia a epidemia e pandemia. L’infodemia si ha appunto quando si è in presenza di una circolazione disordinata di informazioni, molte delle quali non verificate né verificabili.
Ma come si cura l’infodemia? Qui il problema si fa delicato. In prima battuta verrebbe da rispondere: si cura lasciando intervenire solo gli esperti. Ma, a parte il fatto che una fonte può essere esperta ma non capace di comunicare in modo adeguato, il problema è: chi decide quale agenzia di informazione può avere il diritto di informare e quale invece deve fare un passo indietro? Come stabilire se una fonte, pur presentandosi come qualificata, è davvero al servizio del cittadino o di qualche interesse meno nobile? Come regolare il flusso informativo?
Il problema si pone con particolare evidenza in una situazione come quella che stiamo vivendo in questi giorni. La salute pubblica è un bene primario, da garantire e tutelare con ogni mezzo, e l’informazione ricopre un ruolo decisivo. Ma come evitare che la regolamentazione dell’informazione diventi nei fatti una forma di controllo non nell’interesse del cittadino ma di qualcun’altro? Come impedire che da un controllo legittimo, a tutela del cittadino, si scivoli in forme di controllo illegittimo?
L’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, in un comunicato del 19 marzo nel quale denuncia “la diffusione di informazioni fuorvianti e scientificamente infondate su vari generi di malattie e possibili cure o modalità di prevenzione delle stesse” da parte di un certo soggetto (che non nomino perché qui non ci interessa entrare nel merito della singola vicenda) arriva a dire: “L’Autorità ha infine adottato un atto di richiamo affinché tutti i fornitori di servizi di media audiovisivi e radiofonici assicurino una adeguata e completa copertura informativa sul tema del coronavirus covid-19, garantendo la presenza di autorevoli esperti del mondo della scienza e della medicina allo scopo di fornire ai cittadini-utenti, informazioni verificate e fondate”. Parole condivisibili in linea di principio. Ma tornano le domande poste all’inizio: chi e come può stabilire a priori l’autorevolezza di una data fonte? Non dovrebbero essere gli utenti, attraverso un libero confronto, ad attribuire maggiore o minore credibilità alle fonti? E non dovrebbe essere appunto il libero confronto a lasciar emergere le fonti più autorevoli?
Prosegue l’Agcom: “Per contrastare la diffusione di informazioni false o comunque non corrette, l’Autorità ha invitato i fornitori di piattaforme di condivisione di video ad adottare ogni misura volta a contrastare la diffusione in rete, e in particolare sui social media, di informazioni relative al coronavirus non corrette o comunque diffuse da fonti non scientificamente accreditate. Queste misure devono prevedere anche sistemi efficaci di individuazione e segnalazione degli illeciti e dei loro responsabili”. Molto bene, ma di nuovo viene da chiedersi: chi e come può stabilire se una fonte è più o meno “scientificamente accreditata” quando all’interno dello stesso mondo scientifico le certezze sono così poche? Di questo passo non ci si incammina forse lungo una via in base alla quale, alla fine, solo il governo può avere legittimità di comunicazione, mentre tutte le altre fonti, in misura più o meno accentuata, possono essere giudicate “non accreditate”? Che fine fa, di questo passo, la libertà di informazione garantita dall’articolo 21 della nostra Costituzione, il quale, lo ricordiamo, afferma che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”?
Se la pandemia ci preoccupa, nemmeno l’infodemia può lasciarci tranquilli.
Pare che il primo a parlare di “infodemic” sia stato David J. Rothkopf, nel 2003, in un articolo del Washington Post dedicato alla confusione informativa in occasione dell’epidemia di Sars. Nell’articolo si denunciavano i virus trasmessi da Internet e da tutti gli altri media, virus che possono arrivare a creare il panico globale e a innescare comportamenti irrazionali, mettendo a dura prova i governi, l’economia e la stessa coesione sociale. Di qui, argomentava l’autore, la necessità di dotarsi di “sistemi di allerta”, così da “ridurre il numero di focolai di distorsione e destabilizzazione”. “Ciò non significa – aggiungeva – reprimere le informazioni. Significa gestire efficacemente ogni focolaio e presentare i fatti in modo completo e rapido al pubblico critico”.
La questione è proprio questa: come garantire da un lato la serietà e l’onestà dell’informazione e dall’altro la libertà, evitando forme più o meno esplicite di repressione?
Scrisse Alexis de Tocqueville: “Per godere degli inestimabili benefici che la libertà della stampa assicura, è necessario sottomettere gli inevitabili mali che provoca”. Già, ma come?
Aldo Maria Valli