Così io, ventisettenne, ho scoperto la Messa antica. E ci tornerò
Cari amici di Duc in altum, desidero proporvi una lettera che ho ricevuto e che a mio parere merita grande attenzione (soprattutto da parte dei sacerdoti). L’ha scritta una giovane di ventisette anni che in modo semplice e fresco, e per questo profondo, racconta la sua scoperta della Messa antica.
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Caro Valli, io e il mio fidanzato Stefano abbiamo ventisette anni ed è un periodo difficile per noi, che siamo credenti e praticanti, ma ci allontaniamo spesso dalla preghiera e siamo un po’ confusi sulle nostre scelte di vita e di coppia.
La scorsa domenica siamo tornati a messa dopo un periodo di assenza; siamo andati nella parrocchia di quartiere, ma invece di trovare quello che cercavamo, cioè sollievo e guida spirituale, siamo usciti innervositi e stanchi: la luce del confessionale è rimasta spenta tutto il tempo, il sacerdote ha pronunciato una predica molto lunga e molto inconcludente, la suora che gestiva i canti li ha stonati tutti talmente tanto da rendere difficile ai presenti nascondere risolini imbarazzati, e i ragazzi della cresima che avrebbero dovuto animare la messa – quelli presenti, ovvero tre, di cui uno travestito da scheletro in occasione di Halloween – non sono stati capaci di leggere in maniera corretta il salmo responsoriale (balbettii, incertezze, perdita del filo). Il prete ha più volte e vistosamente interrotto la lettura del Vangelo per motivi futili: dal cortile della parrocchia arrivavano rumori per l’allestimento del presepio, e lui ha voluto mandare una catechista a dire di interrompere i lavori; poi è stato il turno di un cellulare (pausa fino a che non ha smesso di squillare), infine di un’ambulanza e di una moto (altra pausa). Insomma, impossibile concentrarsi e pregare: nessuna solennità, nessun raccoglimento. Questo è stato un caso limite, ma ci siamo resi conto che tutte le volte che andiamo a messa succede qualcosa di simile; infatti non sentiamo la gravità della festa, e ne avremmo bisogno. Le omelie, poi, non riescono quasi mai a darci spunti di riflessione; spesso si tratta di miscugli inefficaci di rimproveri naïf e tirate retoriche su Dio che ci ama per come siamo. Se sei un ventenne probabilmente hai passato la vita a sentirtelo dire – va bene tutto, non c’è problema, fai quello che ti senti, ascolta il tuo cuore – basta guardare la pubblicità dello yogurt in tv, non c’è bisogno di andare in chiesa; ma chissà perché questa specie di mantra non serve a molto; cioè, alla fine la sensazione di essere sperduti e infelici rimane sempre.
Allora ho proposto di fare una cosa a cui pensavo da tempo: partecipare a una messa in rito antico. Fiduciosi di trovare la solennità, il raccoglimento e la guida che cercavamo, abbiamo scelto una chiesa del centro di Roma, dove la messa è presieduta da padri lefebvriani: donne velate (velo bianco per le nubili, nero per le sposate), uomini in giacca e cravatta, preti e chierichetti vestiti come in certi quadri ottocenteschi, rito e canti in latino. Quando siamo usciti dalla chiesa, Stefano non mi ha nascosto il suo disappunto, anzi, era quasi arrabbiato: «Insomma,» ha cominciato a dire scuotendo la testa e agitando le mani «tutto in latino, non si capisce nulla, zero partecipazione, poi sempre in ginocchio e non si capisce nemmeno perché, tutto cantato, quasi due ore, predica insensata, così non si può, è stata la prima e l’ultima volta…». Mentre parlava, io sono rimasta in silenzio, perché invece ero felice. Ci sono stati momenti in cui, pur non capendo le parole e non sapendo rispondere in latino (siamo andati senza messale), inspiegabilmente mi sono commossa: le signore davanti a me si inginocchiavano e io ne seguivo l’esempio, così potevo intuire quali fossero i momenti in cui dovevo pregare più forte; i canti salmodiati, anche se non ne comprendevo il significato, s’innalzavano con tale grazia verso il cielo da rendermi certa che le mie preghiere stessero salendo con loro. Ho trovato la concentrazione giusta per pregare; certo, non sempre, alcuni momenti sono stati tediosi, bisogna spesso stare in ginocchio e io, che non avevo l’inginocchiatoio, sul marmo mi sono fatta un po’ male, ma ne è valsa la pena. L’omelia, poi, che il sacerdote ha pronunciato in italiano, mi ha proprio colpito; nel senso, come uno schiaffo, e allo stesso tempo mi ha dato un grande sollievo; perché? mi sono chiesta. Perché il prete ha detto: ricordati dei novissimi; cioè: ricordati che devi morire. Ricordati che quando morirai verrai giudicato e non è vero che qualsiasi cosa tu faccia va bene, al contrario. Se non vivi rettamente, esercitando le quattro virtù cardinali, allora Dio non ti riconoscerà. Non temere la morte, la morte è normale, si muore all’improvviso, in ogni momento; non vivere come se non dovessi morire mai. Ma vivi rettamente in modo che Dio ti possa accogliere quando sarà il momento.
Che sollievo! Che sollievo sentirmi dire: devi fare così; è nelle tue mani, ma la strada è indicata. Com’è spaventoso, invece, il vuoto in cui siamo lasciati a vagare, in cui ci illudiamo di poter fare e avere qualsiasi cosa, e invece è un miraggio perverso che quando ti avvicini si sposta sempre più in là, e la morte è un innominabile buco nero oltre il ciglio del «tutto è possibile».
A scuola gli insegnanti severi erano i miei preferiti. Li temevo, ma mi piacevano, perché alla lunga capivo che erano loro quelli che avevano davvero a cuore gli studenti. I più gentili erano anche i più indifferenti e se mi davano un voto alto non ne ricavavo grande soddisfazione. Così credo di avere bisogno di una Chiesa severa, che punti il dito contro i miei errori perché io possa correggerli. Non sono così brava e forte da riuscirci da sola e ammetterlo è una grande liberazione.
Mi spiace che Stefano non la pensi come me, ma sono fiduciosa. Io tornerò e pregherò ancora, e lo farò con il massimo raccoglimento. Sono sicura che porterà frutto.
Giovanna
Roma