Le (dimenticate) radici cattoliche della libertà di mercato
“Le tasse alte hanno originato povertà”. “Esiste qualcosa di più avventato che agire contro il proprio intereresse, come spesso richiede la giustizia, per servire gli interessi degli altri?”. “Quanto è triste per la repubblica , e quanto è odioso per la gente buona, vedere coloro che entrano nella pubblica amministrazione senza un centesimo diventare ricchi e grassi col servizio pubblico”.
Queste tre affermazioni, ne converrete, sembrano appartenere al bagaglio culturale del più classico dei liberali. Le potremmo tradurre così: le tasse, se superano una certa soglia, diventano una rapina da parte dello Stato invadente, tanto da impoverire le persone; l’interesse privato, e non quello pubblico (astrazione senza volto) è l’unica molla che garantisce il buon andamento del mercato e dunque il benessere; la pubblica amministrazione è un luogo di perdizione nel quale funzionari irresponsabili si arricchiscono alle spalle del popolo.
Orbene, c’è da restare stupiti nello scoprire che i tre concetti appena esposti non nascono, come si potrebbe immaginare, da attuali riflessioni di esponenti liberali di scuola anglosassone, ma da due religiosi spagnoli vissuti circa mezzo millennio fa. Il primo concetto è di Pedro Fernandez de Navarrete (1564 – 1632), canonico di Santiago de Compostela, segretario del cardinale Ascanio Colonna e traduttore di Seneca. Gli altri due sono di Juan de Mariana (1536 – 1624), gesuita, studioso di Tommaso d’Aquino e autore di un trattato sulla liceità del regicidio e di uno contro il re Filippo III che rovinava il popolo svalutando la moneta.
Pedro Fernandez de Navarrete e Juan de Mariana sono soltanto due esponenti di una nutrita schiera di teologi, filosofi e storici spagnoli, tutti religiosi (molti i domenicani, i francescani e i gesuiti) che a partire dalla metà del XIV secolo fino al XVII secolo hanno sviluppato, sulla base di una riflessione sulla legge naturale, un pensiero spiccatamente liberale, in grado di influenzare progressivamente un’area ben più ampia di quella spagnola, fino a raggiungere il Portogallo, la Francia, i Pesi Bassi, la Germania e perfino l’area anglosassone, tanto che molte di quelle idee, specialmente attraverso i protestanti Ugo Grozio e Samuel von Pufendorf, hanno influenzato un padre del liberismo come Adam Smith e la Scuola scozzese.
Il gruppo di religiosi spagnoli che, ben in anticipo su quanto poi verrà elaborato soprattutto nel Nord Europa protestante, si batterono per il diritto alla proprietà privata, contro le pretese del re e della mano pubblica, a favore della libertà di mercato e di intrapresa e contro la “giustizia” intesa in senso statalista, va sotto il nome di “tardoscolastici”. Si chiamano così perché sono studiosi di Aristotele, san Tommaso d’Aquino e della Scolastica, ovvero la filosofia e la teologia cristiana medievale, e costituiscono un’autentica miniera di idee che sorprendono per la loro attualità. Ma allora viene da chiedersi: perché sono così poco conosciuti, perfino all’interno della Chiesa? Perché il loro contributo al pensiero economico e politico è stato quasi dimenticato?
In un bellissimo libro, Cristiani per la libertà. Radici cattoliche dell’economia di mercato (Liberilibri, 222 pagine, 15 euro), l’economista argentino Alejando A. Chafuen, laureato all’Università Cattolica di Buenos Aires, ripercorre il pensiero di questi religiosi e, tra le righe, fa capire perché sono finiti nel retrobottega culturale del nostro tempo. Come spiega nell’introduzione il filosofo Dario Antiseri, cattolico e liberale, i tardoscolastici, mossi da domande di ordine morale, insegnano che non si può essere bravi cristiani se non si difende la libertà: perché è nella libertà individuale, e non nella coercizione statale, che si esercita la responsabilità e la moralità. Ma questo pensiero, opposto a quello di tanti cattolici che hanno sposato la causa dello statalismo confondendo la solidarietà con l’invadenza pubblica, è stato volutamente nascosto e pian piano dimenticato.
Sebbene alcuni cattolici coraggiosi (tra cui lo stesso Antiseri e, non dimentichiamolo, don Luigi Sturzo, secondo il quale “lo Stato è inabile per definizione a gestire una semplice bottega di ciabattino”) abbiano cercato di recuperarle e riproporle, per lungo tempo le radici cattoliche dell’economia di mercato sono apparse pericolose e addirittura sovversive agli occhi di chi, al contrario, ha preferito favorire l’alleanza del Vangelo con Marx. Ecco perché un’opera come quella di Chaufen è preziosa: è come una gemma scoperta in un magazzino nel quale nessuno guarda da tanto tempo, e dove invece è importante tornare a indagare, in questi nostri tempi segnati da populismo e demagogia.
Ovviamente non tutti i cattolici statalisti sono in cattiva fede. C’è chi, in modo convinto, si oppone alla proprietà privata e alla libertà del mercato attingendo direttamente dal Vangelo, e in particolare dal passo di Luca (18,18-27) nel quale si racconta del giovane ricco che si avvicina a Gesù per sapere come ottenere la vita eterna e il Maestro gli risponde che non solo occorre osservare i comandamenti, ma anche vendere tutti i beni e distribuirli ai poveri. Celebre la frase che conclude il passo e che è stata tanto equivocata: “È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio”.
Ora, è proprio vero che Gesù condanna il possesso delle ricchezze? I cattolici che hanno sposato la causa dello statalismo, contro la proprietà privata, pensano di sì, ma autori come i tardoscolastici ci ricordano che questa non è la lettura più corretta. L’autentica interpretazione del Vangelo è diversa: Gesù condanna non chi produce e possiede beni, ma chi mette i beni in cima a tutto e li considera più importanti perfino di Dio stesso. Il problema non sta nei beni, ma nell’attaccamento ai beni. Non dimentichiamo che Gesù elogia il ricco Zaccheo, ed entra nella sua casa, quando il capo dei pubblicani (che raccoglieva le tasse per conto dell’impero romano) promette di donare la metà dei suoi beni ai poveri e di restituire “quattro volte tanto” nel caso avesse frodato qualcuno. Non dimentichiamo neppure che Gesù sceglie i suoi amici e seguaci in genere tra i benestanti (Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo fanno i pescatori e hanno una specie di cooperativa, Filippo e Bartolomeo possiedono terreni, così come Giuda e l’altro Giacomo; Matteo è un esattore delle imposte) e che lui stesso per trent’anni vive con la mamma Maria e il papà Giuseppe, falegname, lavorando nella bottega di famiglia.
Sarebbero decine e decine le citazioni dei tardoscolastici da sfoderare a difesa della proprietà privata e della libertà di mercato, contro l’invadenza dello Stato, la tassazione eccessiva, le pretese del re e il malgoverno che scaturisce dalla gestione di qualcosa che, essendo “bene pubblico”, è considerato in realtà bene di nessuno. Tra i pensieri più forti troviamo quello di Tomas de Mercado (1523 – 1575), domenicano, che nel sottolineare quanto la proprietà comune sia controproducente spiegava che “la gente ama di più le cose che le appartengono”. Non a caso, notava, quando si parla di amore si usa spesso l’aggettivo possessivo: “Se io amo Dio, è il mio Dio, creatore e salvatore, che amo. Se un padre ama i suoi figli, è perché sono suoi. Se una moglie ama suo marito, è perché egli le appartiene, e viceversa. E se io amo un amico è il mio amico, o il mio genitore o il mio vicino. Se io desidero il bene comune, è a beneficio della mia religione o del mio paese o della mia repubblica. L’amore implica sempre la parola mio e il concetto di proprietà è fondamentale per la natura e l’essenza dell’amore”.
Diciamo la verità: non siamo abituati a ragionamenti di questo tipo. La demagogia imperante insegna tutto il contrario. A riprova che il possesso di beni e ricchezze, di per sé, non è male, c’è la questione della carità. La Chiesa stessa si avvale della carità di chi è in grado di farla. Ma la carità non esisterebbe se non ci fosse il possesso di beni. E la vera carità è quella che viene fatta con i beni propri, non con quelli pubblici! Come scrive Chafuen: “La carità, la liberalità, l’ospitalità e la generosità sarebbero tutte virtù impossibili in un mondo senza proprietà privata”.
D’altra parte, si vede bene quale fine hanno fatto i sistemi politici ed economici che hanno preteso di abolire la proprietà privata: semplicemente, sono falliti. Lasciandosi dietro non un paradiso perduto, ma sofferenze indicibili e milioni di morti.
La questione della libertà ne porta con sé due che sono determinanti: quella della responsabilità e quella dell’efficienza. Inutile girarci attorno: l’uomo è più responsabile verso ciò che è suo che verso ciò che è “di tutti”. Ecco perché l’efficienza si trova nel privato, non nel pubblico. Nel privato occorre far tornare i conti e rendere ragione delle proprie scelte, nel pubblico c’è l’irresponsabilità diffusa e lo scaricabarile.
Qualcuno potrebbe obiettare che i tardoscolastici operavano in un’epoca in cui non c’era la globalizzazione e non esisteva il problema della proprietà di alcuni beni come la terra, l’aria e l’acqua, sui quali oggi ci si interroga. Ma non è del tutto vero. All’epoca esistevano forme di globalizzazione, si viaggiava e si commerciava ben più di quanto oggi si possa sospettare. E già allora ci si poneva la questione della proprietà rispetto a certi beni collettivi. Per esempio, circa il sottosuolo, quei pensatori ritenevano che i beni rinvenuti dovessero appartenere agli scopritori. Non era malvagità, ma realismo. E a chi si chiede che cosa risponderebbero oggi, davanti a realtà come la finanza internazionale e le multinazionali, i tardoscolastici rispondono in modo chiaro con le loro teorie del profitto e del valore. Mossi sempre da domande di ordine morale, affermavano che la produzione e la negoziazione, da sole, non giustificano i profitti, i quali sono giustificati solo quando vengono ottenuti comprando e vendendo i beni al giusto prezzo.
Quei pensatori cattolici e liberali sostenevano anche che nel mercato non si può sempre vincere. È nella natura degli affari, spiegava per esempio san Bernardino, che a volte si vinca e a volte si perda. L’importante è che ciascuno si assuma le proprie responsabilità. Parole sulle quali bisognerebbe meditare davanti alle imprese della grande finanza dei giorni nostri, composta in gran parte da corsari che vogliono soltanto vincere e, quando perdono, scaricano il peso della sconfitta su altri.
Concludiamo con una premonizione di Chafuen che non può lasciare indifferenti: “La civiltà occidentale è destinata a perdere la propria libertà se i moralisti e gli economisti non riconoscono e non capiscono i benefici di una società libera”. Innalzando gli stendardi dei “diritti umani” e della “giustizia”, gli statalisti lasciano trionfare in realtà l’irresponsabilità e l’inefficienza. Ed è così, come stiamo vedendo, che le terre da produttive diventano incolte, la cooperazione si trasforma in conflitto e gli individui da liberi diventano schiavi.
Aldo Maria Valli