Così parlò il prode Giacinto. Ricordo di Facchetti, alla vigilia del nuovo campionato
Sta per partire il nuovo campionato di calcio e il tifoso, come nel mio caso, è preso tra due fuochi. Da una parte non vorrebbe riprendere a soffrire, dall’altra non vede l’ora che tutto ricominci. Il calcio di oggi, comunque, non mi piace molto. Troppo fisico, rischia spesso di diventare prevedibile e dunque noioso. Mancano le giocate geniali. I calciatori, con i loro tatuaggi e le loro capigliature strambe, sembrano personaggi da videogioco. So che dicendo queste cose denuncio la mia età, ma che ci volete fare? Mi piaceva di più il calcio di una volta.
E così, visto che mi sono fatto prendere dalla nostalgia, vorrei proporvi un chiacchierata che ho avuto la fortuna di fare con il mio idolo di sempre. Un uomo, un campione, che purtroppo se n’è andato troppo presto: Giacinto Facchetti.
Era il 2002, all’epoca Facchetti era dirigente dell’Inter e lo intervistai per il mio libro La palla è rotonda. Lettere da bordo campo a un figlio adolescente (casa editrice Monti, con prefazione di don Antonio Mazzi). In quell’occasione intervistai anche altri due grandi capitani nerazzurri: Beppe Bergomi e Javier Zanetti, ma oggi, alla vigilia del nuovo campionato, sento il bisogno di far parlare soprattutto lui, Giacinto, del quale sento tantissimo la mancanza..
Sono passati dieci anni da quel 4 settembre del 2006, quando Facchetti ci ha lasciato. Un vuoto mai colmato, specie per quelli della mia generazione. Un vuoto che risulta ancora più grande leggendo le risposte che mi diede, piene di buon senso e umiltà, merce così rara in questi nostri tempi.
Il calcio di una volta, il mondo di una volta. Perché parlarne? Non per dire che oggi tutto va male e tutto è brutto (sotto sotto, un po’ lo penso, ma sostenerlo apertamente non sarebbe giusto nei confronti dei nostri figli e nipoti), ma per ricordare chi siamo e da dove veniamo.
Facchetti, gigante esemplare
Quando giocavo, mi ispiravo a lui. Perché anch’io avevo le gambe lunghe. Perché anche a me piaceva scappare in avanti. E poi mi piaceva quel suo nome inusuale e gentile, direi paradossale per un difensore: Giacinto. (D’altra parte, quanto a nomi strani, la difesa dell’Inter era messa bene, con Tarcisio Burgnich e Aristide Guarneri).
Di Facchetti conservo un ricordo che mi è stato consegnato dai filmati televisivi. È una notte piovosa di maggio e San Siro è un catino ribollente di passione. È il 1965. La mia famiglia è in tribuna, ma io, che ho solo sette anni, sono stato lasciato a casa. L’Inter affronta il Liverpool nella semifinale di Coppa dei campioni. È una specie di mission impossible. Deve ribaltare il tre a uno subito all’andata. Con l’aiuto di un pubblico straordinario, segna prima Corso, poi Peirò, che beffa il portiere inglese rubandogli la palla al momento del rinvio. Per arrivare alla finale manca ancora un gol. Ci pensa lui, Facchetti, il gigante di Treviglio, come lo definisce il telecronista Nicolò Carosio. Un tiro potente, deciso, come se nelle gambe del prode Giacinto fosse stata convogliata tutta la forza, tutta l’energia dei novantamila sulle tribune. San Siro esplode, gli inglesi tornano a casa a testa bassa. L’Inter vincerà la Coppa nella finale contro il Benfica. Un gol storico, forse il più bello, certamente uno dei più significativi realizzati da questo difensore-attaccante che in diciotto anni di Inter ha collezionato 634 presenze e 78 gol, vincendo quattro scudetti, una Coppa Italia, due Coppe dei campioni e due Coppe intercontinentali. Da record anche la carriera in Nazionale, con 94 presenze e tre gol. Un giocatore elegante, esempio di correttezza e lealtà sportiva. Una pietra miliare nella storia del calcio italiano. Ora, a sessant’anni, conserva un fisico da atleta. Mi sembra di intervistare un monumento, in tutti i sensi.
Qualcuno ha detto che nel calcio di oggi ci sono troppi miliardi e poca allegria. È d’accordo?
“Chi l’ha detto, Ronaldo? [Facchetti accenna qui, con un sorriso un po’ amaro, all’ex giocatore brasiliano Ronaldo, che proprio nell’anno in cui fu realizzata questa intervista, il 2002, lasciò l’Inter per passare al Real Madrid, nda]. Scherzi a parte, è evidente che sponsor e televisioni hanno fatto crescere molto il calcio sotto l’aspetto economico, portando una quantità incredibile di denaro. Il problema è che le società, anziché pensare agli investimenti, hanno speso tutto per giocatori, tecnici e dirigenti. È stata una scelta miope. Soprattutto quando si è deciso di puntare sulle televisioni. Adesso stiamo riaprendo gli occhi, ma è difficile capire in che modo ricominciare. Perché i contratti esistono e devono essere rispettati”.
Che cosa le ha insegnato la sua lunga attività nel mondo del calcio, prima come calciatore e poi come dirigente?
“Mi ha insegnato che il calcio, oggi come ieri, è molto formativo per i giovani. Perché insegna il rispetto delle regole e del prossimo, e ad accettare la sconfitta. Oggi però certi comportamenti da parte dei protagonisti non sono più su questa linea. Dobbiamo quindi aiutare i giovani a scegliere bene gli esempi ai quali ispirarsi. Ecco il ruolo fondamentale della famiglia. Noi genitori, quando avviciniamo i figli allo sport, chiediamo spesso che allenatori e dirigenti siano anche educatori. È giusto, ma non dobbiamo dimenticare che il compito educativo spetta prima di tutto a noi stessi, che non possiamo delegarlo ad altri”.
A proposito di esempi, lei è stato un simbolo di correttezza in campo e di fedeltà ai colori sociali. Sono valori che hanno ancora spazio nel calcio di oggi?
“Sicuramente sì, anche se bisogna fare un distinguo. Mentre la correttezza dipende interamente da noi, la fedeltà ai colori sociali in passato era anche il frutto di regole diverse da quelle attuali. Per noi era impossibile chiedere continuamente di poter cambiare squadra, come succede adesso. Era la società che decideva per noi. Se in passato ci sono stati tanti esempi di fedeltà, è anche perché non siamo stati messi alla prova. Quanto alla correttezza, devo dire grazie alle mie doti fisiche, soprattutto alla velocità, che mi ha permesso di essere un giocatore che non aveva bisogno di ricorrere al gioco falloso, ma devo ringraziare ancora di più la famiglia, l’oratorio e l’Inter. Da ragazzo ho avuto come allenatore il grande Giuseppe Meazza, e ricordo benissimo che una volta lasciò a casa per lungo tempo un giocatore molto promettente sul piano tecnico ma meno bravo sul piano del comportamento. Sono lezioni che restano impresse e che oggi, purtroppo, pochi applicano. Se un giocatore è forte, gli si perdona tutto. Secondo me questo è uno sbaglio, ma il calcio fa parte della vita sociale, la società è cambiata e il mondo del pallone non può fare eccezione”.
Non pensa comunque che il calcio potrebbe fare di più per incidere positivamente sulla società, per esempio allargando e potenziando iniziative di solidarietà come Inter Campus, che porta aiuto ai bambini poveri di tante parti del mondo?
“L’Inter prende iniziative di questo genere perché sono ispirate dalla sensibilità del presidente Moratti [oggi Moratti ha lasciato la guida della società nerazzurra, ceduta a imprenditori cinesi, nda] e della sua famiglia verso certi problemi. Sarebbe però irrealistico immaginare un comportamento simile da parte di tutte le società professionistiche. Molto di più si potrebbe fare nei settori giovanili e tra i dilettanti. Ai miei tempi certi valori venivano comunicati attraverso l’oratorio. Lì abbiamo ricevuto una formazione, come uomini e come calciatori, grazie a tanti sacerdoti come don Antonio Mazzi che, sull’esempio di don Bosco, hanno contribuito a far crescere le persone anche attraverso il gioco”.
Oggi, rispetto ai suoi tempi, è più facile o più difficile che un giovane del vivaio debutti in prima squadra?
“Credo che le cose in realtà non siano cambiate molto. Anche ai nostri tempi le società preferivano spesso mandare in campo il grande nome straniero, capace di attirare le folle, anziché valorizzare un giovane. Tutto dipende dalla personalità dell’allenatore. Critica e tifosi non vanno tanto per il sottile. Un giovane che non azzecca le prime partite può essere facilmente accantonato. Occorre che l’allenatore sia in grado di imporlo nonostante le difficoltà iniziali”.
Se dovesse rivolgere un consiglio a un giovane giocatore, che cosa gli direbbe?
“Credo che alla base di tutto ci siano la passione e la tenacia. Uno può anche possedere ottime doti tecniche, ma senza la spinta della passione e senza la capacità di affrontare i sacrifici, è difficile fare strada”.
Ecco. Così parlò il prode Facchetti, il mio mito. Che qualcuno, purtroppo, ha cercato di infangare quando lui non poteva più difendersi (sulla vicenda raccomando la lettura del libro In Inter veritas, di Luca Carmignani).
Prima di lasciarmi travolgere del tutto dalla nostalgia, vi lascio con le parole di un anonimo interista: “È meglio aver amato e perduto che non aver mai amato”.
Buon campionato a tutti!
Aldo Maria Valli