Così Francesco strumentalizza le parole di Giovanni Paolo II

di don Jean-Marie Perrot

Papa Francesco afferma regolarmente che le sue parole e i suoi atti appartengono a un rinnovamento nella continuità [1]. Così, nel recente motu proprio, che apre alle donne i ministeri del lettore e dell’accolito, osserva: «Questa riserva (accesso ai soli uomini) ha avuto un senso in un determinato contesto, ma può essere ripensata in contesti nuovi, avendo però sempre come criterio la fedeltà al mandato di Cristo e la volontà di vivere e di annunciare il Vangelo trasmesso dagli apostoli ed affidato alla Chiesa perché sia religiosamente ascoltato, santamente custodito e fedelmente annunciato».

È davvero così e la continuità ostentata regge la verifica? Ciò si giudica principalmente dal contenuto dell’insegnamento pontificio [2]. Un altro approccio è quello delle citazioni che fa e del modo in cui le utilizza. È quel che noi proponiamo di fare qui, limitandoci alle citazioni ch’egli fa di Giovanni Paolo II. Di per sé, sembra in effetti appropriato, per chiunque presenti una riflessione, ricorrere a citazioni differenti per argomento, al fine di illustrare le proprie osservazioni o mostrare come egli si ponga nel solco degli autori. È questo il caso dei papi e, tra questi, di Francesco, sebbene il corpus delle citazioni sia, con lui, a un tempo più eclettico e più autocentrato di quanto non fosse presso i suoi predecessori. Giovanni Paolo II è dunque, in modo piuttosto naturale, uno dei riferimenti dei suoi testi. Quando Francesco evoca ad esempio «lo spirito di Assisi», non c’è problema, ma quando tira in senso liberale l’insegnamento tradizionale di Giovanni Paolo II, la cosa è diversa. In questo caso ci sembra che, frequentemente, Wojtyla venga strumentalizzato da Bergoglio, nel senso che il testo del primo, chiamato in sostegno di un’affermazione nuova, sta stretto nella parte assegnatagli; ciò che si constata è piuttosto una sollecitazione forzata, addirittura uno sviamento esplicito. In assenza di un’indagine esaustiva, vorremmo proporre qualche esempio significativo.

Un’autorità dottrinale delle conferenze episcopali

L’esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2012) sarà il primo esempio. Francesco qui presenta la necessità di un rinnovamento nell’esercizio del Papato, collocandosi nel movimento cominciato col Concilio Vaticano II ed espresso da Giovanni Paolo II, che aveva chiesto d’«esser aiutato a trovare una “forma d’esercizio del primato che, pur non rinunciando in alcun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova”» (n. 32). La citazione è tratta dal n. 95 dell’enciclica Ut unum sint. Giovanni Paolo II evoca il primato petrino nel quadro delle relazioni ecumeniche, vale a dire nel suo esercizio ad extra. Tuttavia, non è in questo ambito che viene ripreso da Evangelii gaudium, in cui si dichiara che «questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle conferenze episcopali, che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche una certa autentica autorità dottrinale». Eccoci passati all’esercizio ad intra del primato. Inoltre, in una nota a piè di pagina al termine di questa frase, viene menzionato un altro documento di Giovanni Paolo II, il motu proprio Apostolos suos sulla natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali (21 maggio 1998). Si vuol suggerire così che qui si trovino tracce indicanti l’evoluzione auspicata? È poco sostenibile. Tanto più che, passando dalle parole alla pratica, due decisioni bergogliane in questo ambito possono difficilmente, tanto per contenuto quanto per metodo, accreditarsi in continuità con Giovanni Paolo II. La prima è la più ampia libertà lasciata alle conferenze nella traduzione dei libri liturgici in lingua vernacolare. Ricordiamo la lettera pungente che Francesco inviò al cardinale Sarah, spazzando via l’interpretazione nel senso della continuità che costui aveva dato al motu proprio Magnum principium (3 settembre 2017), cioè mantenendo al Soglio romano il primato nelle traduzioni, mediante l’atto di recognitio, ciò che Giovanni Paolo II aveva giustamente stabilito. No, ha scritto Francesco, la responsabilità è adesso delle conferenze. La seconda decisione consiste nella competenza riconosciuta alle medesime conferenze circa l’emanazione di norme per l’applicazione dell’enciclica Amoris laetitia, specialmente in merito all’accesso ai sacramenti da parte di persone in situazione matrimoniale irregolare.

Unione e fecondità: ampliare l’una, limitare l’altra

Quest’ultima decisione è stata resa possibile da un ragionamento che ha sollevato numerosi interrogativi e controversie [3]. Vi si trova qui anche un utilizzo discutibile delle citazioni, di cui la prima, centrale, di Giovanni Paolo II sulla legge della gradualità. Questa – con riferimento in nota a Familiaris consortio n. 34 – viene definita così al n. 295: «Una gradualità nell’esercizio prudenziale degli atti liberi in soggetti, che non sono in condizione di comprendere, di apprezzare o di praticare pienamente le esigenze oggettive della legge». Ora, come si sa, il seguito del testo insiste su queste condizioni che riducono, anzi annullano l’imputabilità del peccato. Ne emerge pertanto una situazione, quella di coloro che vivono in una condizione matrimoniale irregolare e che si trovano in circostanze tali da non potere (salvo commettere una nuova colpa) giungere ad una situazione oggettivamente conforme alla legge. Avendo esse fatto, continua papa Francesco, in un percorso di discernimento, sinceramente luce sul loro stato passato, presente e futuro (che senza dubbio resterà lo stesso), la carità richiede che le si integri pienamente nella comunità cristiana, sino alla vita sacramentale.

Un simile ragionamento, in riferimento alla citazione wojtyliana, soffre di due difficoltà che, in definitiva, lo pongono in contraddizione col suo sedicente fondamento: la prima è il disconoscimento del carattere intrinsecamente cattivo di certi peccati, ciò che le circostanze attenuanti non possono mai cambiare. Quanto alla seconda, essa consiste nel fatto che la legge della gradualità comprenda una progressione, tanto più imperativa quanto più ci si sia informati sulla situazione (carattere intrinsecamente cattivo del peccato, scandalo provocato), ciò che compirebbe immancabilmente il percorso di discernimento; l’ignoranza non potrebbe più essere invocata; la sola, reale riduzione di responsabilità sarebbe allora la via penitenziale, che si aprirebbe (Familiaris consortio, n.84).

Non lasciamo Amoris laetitia senza menzionare un’altra citazione, fatta fuori dal contesto. La prima colpiva l’unità del matrimonio, questa la sua fecondità. Al n. 167, dopo aver sommariamente elogiato le famiglie numerose, Francesco afferma: «Questo non implica dimenticare una sana avvertenza di san Giovanni Paolo II, quando spiegava che la paternità responsabile non è “procreazione illimitata o mancanza di consapevolezza circa il significato di allevare figli, ma piuttosto la possibilità data alle coppie di utilizzare la loro inviolabile libertà saggiamente e responsabilmente, tenendo presente le realtà sociali e demografiche così come la propria situazione ed i legittimi desideri». Si tratta del passaggio di una lettera al segretario generale della Conferenza internazionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sulla popolazione e sullo sviluppo (18 marzo 1994). Sembra presentare la paternità responsabile con un monito più accettabile di quello che, in aereo, aveva spinto Francesco a dire che le coppie non dovevano essere «come conigli». Ora, quando Giovanni Paolo II enuncia quanto qui ripreso, la sua intenzione mira a riferirsi alle politiche incentivanti o imperative di limitazione delle nascite: l’«illimitato» non è una critica verso chi mancherebbe di prudenza, lui denuncia le esposizioni tendenziose circa la posizione della Chiesa sulla fecondità al solo scopo di respingerla come insensata o impossibile. In Giovanni Paolo II non si trova di fatto né in questa lettera né in alcun’altra parte, a nostra conoscenza, alcun avvertimento contro le famiglie troppo numerose. È un peccato che Amoris laetitia, che peraltro così poco afferma sulla fertilità, presenti tale nota restrittiva, così poco fondata.

Ogni Paese è anche dello straniero

Un ultimo esempio verrà preso dall’enciclica Fratelli tutti, dove, tra i vari punti importanti, quello sul diritto dei migranti e, come corollario, sull’imperiosa accoglienza da riservarsi loro, è stato annotato con la seguente affermazione: «Ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati ad una persona bisognosa, che provenga da un altro luogo» (n. 124). Per fondare questa dichiarazione, Giovanni Paolo II viene richiamato come fonte e, se non è l’unico, è colui del quale, afferma l’enciclica, Francesco riprende il testimone: «Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di san Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa» (n. 120). Seguono le citazioni di tre encicliche sociali, Centesimus annus (n. 31), Laborens exercens (n. 19) e Sollicitudo rei socialis (n. 33) [4]. Per riassumere la questione, le citazioni wojtyliane affermano il carattere non assoluto della proprietà privata e richiamano il principio di destinazione universale dei beni. Ciò conduce Fratelli tutti a due affermazioni intermedie: le capacità degli imprenditori devono essere «orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria»; ciò crea un «diritto di tutti al loro [dei beni della terra] uso» (n. 123). Tale è la «subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni» (id.). Poi giunge una terza affermazione, priva di riferimento, prima di arrivare alla dichiarazione n. 124: questa subordinazione non riguarda soltanto gli attori privati (individui o imprese), ma dev’essere estesa «ai Paesi, ai loro territori ed alle loro risorse».

Si sfida chiunque a trovare nelle encicliche di Giovanni Paolo II una simile concezione socialista dell’imprenditoria, l’idea di una subordinazione della proprietà privata scollegata da qualsiasi riferimento al lavoro ed alla giusta remunerazione o ancora l’idea di una disponibilità dei territori e delle risorse di un Paese che ceda con perdite e profitti la sua sovranità e, di conseguenza, l’esigenza di un ordine internazionale basato sulla cooperazione e la giustizia.

Certo, si dirà che lo sviluppo della dottrina non è la ripetizione della medesima. Lo si concede volentieri; ma bisogna anche che vi sia, nell’autorità citata, un punto d’appoggio, perché lo sviluppo dev’essere omogeneo. Ciò che è stato mostrato, mediante il ricorso a citazioni in ambiti in cui il magistero wojtyliano è particolarmente chiaro ed approfondito, sono piuttosto contraddizioni formali ed alquanto incresciose.

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[1] È la seconda delle ermeneutiche che Benedetto XVI aveva posto in risalto per qualificare la ricezione del Concilio Vaticano II. A nostra scienza, Francesco non si è situato esplicitamente in rapporto a questo quadro concettuale.

[2] Va aggiunto che, per questo pontificato, l’ambiguità o l’anfibologia delle dichiarazioni spinge ad essere attenti agli atti che seguono, vale a dire all’applicazione concreta autorizzata, autentica. Seguendo altri, noi applichiamo questo metodo di decifrazione dell’insegnamento bergogliano.

[3] Cfr. i Dubia dei quattro cardinali, la Correzione filiale firmata da numerose personalità cattoliche, senza parlare degli studi di diversi teologi morali.

[4] Vengono citate anche Populorum progressio di Paolo VI, Laudato si’, Caritas in Veritate di Benedetto XVI; sia  tutte le encicliche sociali posteriori al concilio Vaticano II.

Fonte: resnovae.fr

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